domenica 14 dicembre 2008

Carlo Poggio - aneddotica

Negli anni Settanta, la IVI era una grande azienda chimica con tre stabilimenti a Milano, Quattordio (AL), Caivano (CE) e circa 1600 dipendenti.
Un discreto numero di costoro, dati i molti collegamenti nazionali e internazionali come le tante opportunità che si presentavano, era sovente in viaggio per lavoro e non era raro il caso che, da questi viaggi, vi fosse che tornava con un’avventura da raccontare.

Ho raccolto, fra tutte, quelle che, per la loro singolarità, avevano riscosso grande successo e le ho raccontate in prima persona, anche se non tutte accadute a me, perché mi nascevano dei dubbi sui protagonisti dell’epoca.

Sono storie che non hanno nesso con lo specifico argomento della pubblicazione ma sono storie capitate a persone dell’azienda nel periodo analizzato e soprattutto sono storie curiose e divertenti.
In fin dei conti, l’intenzione era di chiudere con un sorriso.

PARIGI


Intorno alla metà degli anni Sessanta, alcune case automobilistiche francesi avevano adottato un tipo di sigillante particolarmente interessante per la sue proprietà protettive, motivo per cui, assunte le dovute informazioni, risalimmo al fabbricante di quel prodotto, arrivando quindi a concludere la concessione di una licenza esclusiva per l’Italia.

Ci venne proposto di firmare l’accordo a Parigi per cui, in un bel giorno di primavera, partiì da Linate con il mio vicedirettore geometra Bianchi che era munito degli appositi poteri.
Il nostro interlocutore aveva fatto le cose in grande.

Venne a prelevarci all’aeroporto con una Mercedes presidenziale, completa di autista in livrea, ci portò a Lille a visitare lo stabilimento e quindi a pranzo.

Nel pomeriggio rientrammo a Parigi dove erano sede centrale e centro ricerche e lì avvenne la firma del contratto.
Alle sette di sera ci scaricò in rue de la Paix davanti al Continental (poi Intercontinental), dove eravamo ospiti, informandoci che sarebbe passato a prenderci intorno alle nove per passare insieme la serata al Lido.

Questa comunicazione agitò il mio capo, che appena entrato in albergo, mi disse che dovevamo affrettarci se volevamo fare un doccia e mangiare prima dello spettacolo. Obiettai che non capivo perché volesse mangiare in quanto avremmo cenato al Lido ma non ci fu verso. Al Lido non si mangiava.
Fui invitato a trovarmi mezz’ora dopo per andare da Ciro in Boulevard des Italiens dove avremmo cenato.
Lo accompagnai, ma a fronte della sua ordinazione (affettati, pizza, crème caramel, mela, caffè, amaro) presi una mozzarella e un frutto, ben saldo nella mie convinzioni; rientrammo all’hotel e poco dopo giunse il nostro anfitrione accompagnato dalla consorte.

Una veloce presentazione, un accenno di baciamano e pochi minuti dopo eravamo davanti al Lido con auto prelevata da un addetto, maitre in attesa, tavolo in prima fila a livello palcoscenico ma, soprattutto, tavolo imbandito con piatti, bicchieri, posate che non lasciavano dubbio sul seguito della serata.
Due cose attirarono la mia attenzione: il colpo d’occhio della sala con il palcoscenico contornato da una corolla di tavoli elegantissimi nei loro addobbi e il pallore del viso del mio vicedirettore, cosa che mi preoccupava perché Bianchi, benché cinquantenne, aveva già avuto due infarti.

Serata indimenticabile.
Alternati ai tanti numeri dello show, ci furono serviti, hors d’oeuvre, potage, due entrées di carne e di pesce e, meraviglia delle meraviglie, posizionati su tre piani dell’apposito carrello, almeno trenta formaggi vanto della cucina d’Oltralpe.
Il tutto opportunamente accompagnato dal vino che, di volta in volta, il sommelier consigliava. Dessert, caffè, un cognac d’annata, conclusero il banchetto.
Il capo resse l’urto.
Declinò, all’uscita, il passaggio offertoci, adducendo l’abitudine di una passeggiata dopo cena, per cui salutammo calorosamente in nostri ospiti, avviandoci quindi a percorrere tutti gli Champs-Elysees, dall’Arco alla Concorde, piacevolmente discorrendo di quanto detto, fatto, visto, durante quella lunga giornata.
Entrati in albergo, prendemmo l’ascensore e fu solo davanti alla porta della sua camera che Bianchi sorridendo mi chiese:

- Dottor Poggio, lei era già stato al Lido?

- No, signore, ma ho uno zio che ha lavorato qui alla Banca Commerciale e così….

- Ogni giorno si impara qualcosa; per fortuna mi porto sempre l’Alkasetzer. Buonanotte, Dottore.

- Buonanotte, signore.




RIO DE JANEIRO



A Rio de Janeiro, davanti al Maracana, il più grande stadio del mondo, c’è la statua di Bellini, il capitano di quel Brasile che vinse in Svezia per la prima volta, nel 1958, i campionati mondiali di calcio.
Io riusciì ad entrare nello stadio, malgrado il campionato fosse sospeso per la pausa estiva, la domenica mattina mentre andavo all’aeroporto per rientrare in Italia.
Il portiere dell’hotel conosceva un tassista lontano parente di un addetto del campo che, per qualche cruzeiro, mi fece addirittura passeggiare sul prato.

Fu una visita emozionante perché, in un silenzio da incanto, alla grandiosità dell’arena si univano i ricordi legati ai nomi dei tanti campioni che, su quell’erba, avevano giocato. E che fosse un momento magico me lo confermò la risposta del mio accompagnatore allorché gli chiesi:

- Ma quando nasce in Brasile un altro Pelé?

- Sorrise, mi mise una mano sulla spalla, guardandomi con compassionevole benevolenza, mi sussurrò in un orecchio:

- Senor, Pelé è come Gesù Cristo. Ne nasce uno ogni duemila anni.



BARCELLONA



Nella prima metà degli anni Sessanta, due grandi aziende italiane, in forte crescita, allargarono i loro interessi alla Spagna: la Fiat acquistò la Seat di Barcellona e la Zanussi costituì l’Ibelsa, una joint-venture nei pressi di Madrid.

Essendo fornitori di entrambe ma impossibilitati ad esportare per i dazi che arrivavano anche al 30%, fummo sollecitati a trovare un’intesa con un produttore locale che desse sufficienti garanzie di affidabilità.

La nostra attenzione si concentrò su un’azienda di Barcellona, la Ivanov , di media dimensione ma assai vivace ed in forte crescita tanto da aver progettato un nuovo stabilimento nell’area industriale prossima all’aeroporto.

Esisteva un reciproco interesse all’accordo per cui, in tempi brevi, venne la conclusione.
Entrammo nel capitale di minoranza ma significativamente, ci fu data una presenza in CdA e la partecipazione di un nostro dirigente alla gestione.
Azionista di maggioranza era rimasto l’ex proprietario, Victor Ivanov Bauer, che con i tanti rapporti avuti, era diventato un buon amico.

Fu così che a trattativa perfezionata, mi invitò a trascorrere un weekend nella sua casetta al mare.
Alla faccia della casetta.

Mi trovai in un posto da favola, a una trentina di chilometri da Barcellona, dove, al centro di una baia immersa nel verde che mi ricordava la Fetovaia elbana degli anni Cinquanta, erano stati costruiti la villa, l’imbarcadero (munito di veliero e fuoribordo), due campi da tennis, un golf con, si fa per dire, solo nove buche.
Il seguito fu all’altezza delle promesse per cui fu uno splendido fine settimana.

Il lunedì mattina intorno alle nove, partimmo in auto per la città diretti in fabbrica mentre, nel tardo pomeriggio, io avrei preso l’aereo per tornare in Italia.

Fatti pochi chilometri, attraversando uno dei tanti paesini della riviera, ci apparve sul lato destro della strada un signore che chiedeva un passaggio ed è corretto dire “signore” perché nulla aveva dell’autostoppista in quanto alto, magro, ben vestito, borsello al fianco; in sintesi distinto.

Victor mi guardò e tacitamente, lo imbarcammo; il gentleman salì, si presentò, si profuse in mille scuse ed altrettanti ringraziamenti, spiegandoci infine, il disastro del suo inizio di giornata.

Possedevano tre auto in famiglia ma due erano partite molto presto, una con moglie indaffarata e una con figlio universitario; la terza auto, la sua, non ne aveva voluto sapere di mettersi in moto. Nel villaggio non vi erano meccanici, trenino e corriera per Barcellona fermavano lì una sola volta al giorno e, naturalmente, in prima mattina. Perdipiù il lunedì nel suo lavoro, non disse quale, era il più proficuo della settimana.
Ascoltando queste geremiadi, non solo non ci eravamo accorti di essere entrati nell’abitato di un altro piccolo centro ma lo avevamo fatto a velocità superiore al consentito.
Lo capimmo dal fischio di un vigile.

Accostammo al marciapiede, la guardia ci raggiunse, controllò libretto e patente poi, senza dire una parola, estrasse blocco e penna con intenzioni chiarissime. E qui iniziò uno show.

Perché Victor e autostoppista schizzarono contemporaneamente fuori dall’auto per impedire il verbale e conseguente multa ma presto il nostro passeggero prese il sopravvento ed il rapporto con il carabiniere divenne un suo fatto personale.

Raccontando della cortesia usatagli, cortesia che non meritava una tale conclusione, abbinava, ad una esemplare eloquenza, una efficacissima mimica fatta di espressioni del viso addolorate e movimento lievissimo delle mani a guisa di farfalla.

Era letteralmente uno spettacolo ma non commosse il pubblico, ovvero il vigile, che compilò verbale e ammenda.

Com’è facile intuire, il resto del viaggio fu una lunga critica alle forze dell’ordine che trascuravano i criminali per perseguire la brava gente che va a lavorare eccetera, eccetera….

Alle porte della città, Victor chiese al nostro compagno di viaggio dove gli era comodo scendere dato che noi andavamo dalla parte opposta di Barcellona e quindi l’avremmo attraversata tutta.

La risposta fu entusiasta:

- Che servizio! E’ proprio il mio giorno fortunato, lavoro alle Ramblas.

Ci fermammo sotto la statua di Colombo, scendemmo tutti e tre ed il signore espresse il suo rammarico per l’episodio della contravvenzione, aggiungendo, però che vi aveva posto rimedio.

- Yo soj un ladron – disse mentre ficcava in mano a Victor il libretto del malcapitato vigile catalano, artefice secondo lui di una grave ingiustizia, al quale lo aveva sottratto con l’abilità di un grande professionista.

- Gracias, muchas gracias – aggiunse e sparì nella strada particolarmente affollata del lunedì.

Venti minuti dopo, il corpo del reato finiva nel fuoco purificatore della caldaia centrale dello stabilimento Ivanov.


PORDENONE


L’omologazione degli smalti Inves alla Rex fu un’operazione lunga e complessa perché l’unico fornitore del Gruppo era una grande azienda inglese, la ICI di Slough, altamente specializzata, ma anche per la diffidenza nutrita verso i prodotti nazionali a seguito di un infelice esperimento che aveva provocato l’ingiallimento di migliaia di elettrodomestici.

Ne derivò un’interminabile trafila. Approvati i primi campioni di laboratorio, sottoposti al vaglio di un capitolato assai rigoroso in particolare per i test di resistenza ad agenti di varia natura, vi furono le prove di spruzzatura che, al tempo, era ancora manuale; infine arrivò l’ordinativo per una fornitura sperimentale.

Questo iter aveva voluto dire innumerevoli viaggi a Pordenone, viaggi interminabili, non esistendo alcuna autostrada utile, per il ché si percorrevano strade statali o provinciali addirittura attraversando città come Piacenza e Cremona, Mantova e Vicenza.

Trascorrevo praticamente le giornate nel reparto verniciatura il cui capo era il Tullio, un simpatico ragazzone friulano, diplomato in chimica, con il quale nacque una bellissima amicizia nell’assoluto rispetto delle reciproche responsabilità.
Fu uscendo a cena, nelle invitanti trattorie del posto, che scoprimmo la comune passione per il vino.

Tullio mi fece conoscere ed apprezzare i tanti vini friulani: Merlot e Marzemino, Tocai e Pinot, Cabernet e Scioppettino, Sauvignon e Ribolla, Verduzzo e Refosco, fino al Ramandolo e al leggendario Picolit. Contraccambiavo portando Grignolino, Freisa, Barbera e Dolcetto.

Fu questa cultura enologica a convincere Tullio a parlarmi del nonno.

Suo nonno abitava a San Donà del Piave, luogo d’origine della famiglia, in una casetta con giardino che aveva, sul retro, una vigna di uva rosse che il nonno curava personalmente.

La curiosità riguardante il vigneto era la sua estensione, calcolata per una resa media annua di 1200/1300 bottiglie corrispondenti al consumo del proprietario (un paio di bottiglie al giorno) e ad una scorta sufficiente per le serate con gli amici, le feste, gli omaggi.
Entrai, grazie all’amicizia con il nipote, tra i beneficiati.

Alcuni anni dopo, giunsi a Pordenone, per la solita visita periodica, in una di quelle giornate settembrine in cui si stagliano nitidissime le montagne e nel contempo da sud giunge l’odore del mare. Andai alla verniciatura dove Tullio mi accolse con una faccia tristissima: “Quest’anno, niente vino del nonno” e continuò: “Ieri, una grandinata….. non è rimasto nulla, solamente i tronchi delle viti completamente spogli”.

Istintiva fu la domanda: “Il nonno?” Tullio sorrise, poi raccontò.

Impietrito, il buonuomo aveva assistito dalla finestra della cucina alla distruzione del suo vigneto. Al termine della tempesta, era uscito a girovagare tra i filari raccogliendo ogni tanto da terra, rigirandoli tra le dita,una foglia o un grappolo martoriati dai chicchi di grandine.
Sempre silenzioso, rientrato in casa, era andato in camera da letto e lì aveva staccato il Crocifisso, appeso sulla testiera. Si erano guardati negli occhi, poi il nonno aveva legato Nostro Signore ad un lungo pezzo di spago, era tornato nella vigna e lo strascicava per terra, avanti e indietro, perché vedesse il disastro.

A voce bassa lo rimbrottava:” Varda, varda, varda cosa ti ga fato...”.


ROMA



Una delle specializzazioni dell’azienda era la produzione di vernici per usi militari, per tutte le tre Armi.

Dopo lunghe trafile tecniche e burocratiche, avevamo ottenuto le necessarie omologazioni: dal Centro Mariperman di La Spezia per le unità della Marina Militare, da Weisbaden per gli F 86 e i G 91 in dotazione all’Aeronautica, dall’Arsenale di Torino per i carri armati costruiti dall’Otomelara.

Tra i nostri clienti figuravano tutti gli Arsenali navali da Taranto a La Spezia , a Messina, a Augusta, a Napoli, Venezia, Maddalena; erano presenti i più bei nomi dell’industria aeronautica come Aeritalia, Macchi, Piaggio, Siai Marchetti; annoveravamo tutti i fornitori dell’Esercito che utilizzavano vernici mimetiche o riflettenti.
Fu per questa specializzazione che mi venne richiesto telefonicamente un incontro a Roma al Forte Boccea.

Non mi furono date molte delucidazioni sull’argomento da discutere ma semplicemente il luogo, la data e l’ora del rendez-vous oltre al nome e al grado dell’ufficiale da contattare.
Avrei solo dovuto fare quel nome all’ingresso del Forte per ottenere il pass.
Ero all’oscuro del legame Forte Boccea - Servizi segreti.

Una bella mattina di settembre del 1973 presi un aereo da Milano e un’ora dopo ero in fila a Fiumicino per prendere un taxi.

Montato in macchina, dissi solo " Al Forte Boccea " e ci avviammo.

Era appena cominciato il campionato di calcio e il tassista, dopo essersi informato se venivo da Milano e avuta risposta positiva, mi chiese se tifavo Inter o Milan; replicai che ero piemontese e che tifavo Juventus.

Ne nacque una approfondita analisi del calcio italiano con qualche sospetto suo sul perché gli scudetti li vincessero sempre le squadre del Nord e pochi le due romane.

Ad un tratto il conducente si interruppe e girandosi a guardarmi, mi annunciò che stavamo nel quartiere del Forte e chiese in quale via in particolare fossi diretto. Io replicai che andavo proprio al Forte e, a questo punto lui rallentò fino quasi a fermarsi e poi sempre girandosi, sussurrò:
- Dottò, al Forte militare?

- Si, al Forte –.

Non capivo quell’aria di mistero.

Per una decina di minuti viaggiammo in silenzio assoluto fermandoci infine ai cancelli dell’edificio in cui ero atteso.
Sceso dal taxi, dissi al piantone di guardia il nome che mi era stato segnalato e consegnai un documento di identità.

Passò un tempo abbastanza lungo e, finalmente, il piantone ritornò per spiegarmi la strada all’interno, aggiungendo, però, che, il taxi non poteva entrare per motivi di sicurezza. Mi sarebbe stato chiamato un secondo taxi al termine del colloquio.

Tornai dall’autista e dettogli che non c’era permesso di accesso per auto pubbliche, chiesi che mi desse la ricevuta della corsa.

Trasecolai alla risposta.

- Niente, dottò, è tutto gratis -.

- Scusi, perché niente?-

- Niente , pecchè da na vita aspettavo de portà n’aggente segreto. Me ripago stasera quando lo racconto a mi moje -.

Poi, strizzando l’occhio, mi tranquillizzò: - Dottò, nun ce siamo mai visti -.


HONOLULU


Nel 1973, la Direzione estero della Fiat organizzò un viaggio di grande interesse che prevedeva una settimana negli usa e una in Giappone con visite a stabilimenti automobilistici e fabbriche di vernici.

A quel viaggio partecipai, in rappresentanza della IVI, in compagnia di due alti dirigenti del gruppo il che significava grandi alberghi e business class.
Era un viaggio che si sarebbe potuto anche definire un piccolo giro del mondo perché il percorso prevedeva sosta a New York - Saint Luois - Los Angeles - San Francisco - Honolulu - Tokyo - Osaka - Anchorage - Copenaghen e rientro a Milano.

Chiedemmo di rivedere un solo punto del programma presentatoci ovvero non la sosta tecnica alle Hawaii, ma una fermata così da trattenerci per un giorno a Honolulu e ammirarne le tanto decantate bellezze.

D'altronde, quando mai saremmo ripassati da quel paradiso?

Fu così che alla fine della prima settimana del viaggio, concluso il tour americano, ci imbarcammo nel tardo pomeriggio su un Jumbo della Pan Am in partenza da San Francisco per le Hawaii.

Come detto, viaggiavamo in business che, nei Boeing 747 di allora, era una classe da favola in quanto i sedili, già di per sé comodissimi, si trovavano solo nella parte inferiore del velivolo mentre nella gobba vi era un piccolo bar, riservato ai clienti della business, al quale si accedeva da una scaletta a chiocciola.

Il bar aveva un bancone sulla parete di fondo di fronte al quale stavano quattro o cinque tavolini circolari piuttosto alti, ognuno contornato da quattro sgabelli.

Fu lì che, dopo un paio di ore di volo, una hostess ci invitò a recarci per consumare la cena.

Ci si era appena seduti, quando dalla scaletta, spuntò un signore molto alto, quasi imponente, capelli grigi, a primo acchito intorno ai sessanta, il quale, data un’occhiata in giro, visti i sedili tutti occupati, si avvicinò al nostro tavolino. Chiese gentilmente se poteva sedersi, il che fece appena ottenuto il nostro scontato consenso.

Poco dopo, avendoci ascoltato chiacchierare nella nostra lingua, domandò in inglese se fossimo italiani, se parlavamo la sua, se avevamo piacere di conversare.
Come prima cosa, ci dichiarò il suo amore per il nostro Paese che conosceva molto bene, si interessò ai motivi del nostro viaggio, si dimostrò bene informato sull’universo del gruppo Fiat allorché apprese che ne facevamo parte.
Quando a nostra volta passammo a chiedergli quale fosse la sua attività, ci guardo sorridendo e disse che era facile capirla perché era racchiusa nel suo cognome.

Sul momento quella affermazione ci sembrò una spacconata ma, un attimo dopo, perché ul signore, sempre sorridendo e quasi sussurrando, disse:

" My name is Colt ! "

Colt! Non era un nome, era una leggenda, era la storia della conquista del West, da Toro Seduto al generale Custer, da John Ford e John Wayne, la storia di quella 45 a tamburo inventata, come raccontò poi, dal suo bisnonno Samuele alla metà dell’Ottocento.
Un fabbro, Samuele, ma un fabbro geniale.

Da quel momento il tempo trascorse rapidamente, fu quasi solo Mr. Colt a parlare in risposta alle tante domande che noi gli ponevamo; si fece tardi senza che ce ne accorgessimo e quindi riprendemmo la discesa verso i nostri posti.

Nel lasciarci, Mr. Colt si disse molto dispiaciuto.

Avremmo potuto pranzare insieme l’indomani ma purtroppo aveva dovuto modificare i suoi programmi a seguito di una comunicazione ricevuta in aereo; gli toccava così proseguire con lo stesso volo per Tokyo e di là in Medio Oriente per un problema assai urgente.

Era il 6 ottobre 1973. Quel giorno Siria ed Egitto avevano attaccato Israele, era scoppiata la guerra che poi fu detta del Kippur.


Quattordio, Novembre 2008

sabato 6 dicembre 2008

Carlo Poggio e la scuola quattordiese

(Premesso che, dopo aver avuto un consenso informale, trascriverò alcune parti del suddetto lavoro ma - come recita qui a destra il blog - sono pronta a rimuovere qualunque parte possa ledere la privacy di chiunque, la cosa risulta a mio avviso difficile poiché lo scritto ha come finalità l'ELOGIO delle persone e dei fatti narrati, ne è addirittura il senso, il corpo!)

Personalmente sono felice di mettere in rete questo sintetico lavoro in un particolarissimo momento storico.
Potrà far discutere ma è particolarmente interessante per me che, dall'esterno e da altra angolatura, ho visto gli sviluppi di quegli accadimenti pionieristici descritti così bene dal dott. Carlo Poggio.
Ero una bambina curiosa e qui colmo le mie lacune di allora...
Desidero perciò, come in contro canto, aggiungere certi miei ricordi, alcune mie chiavi di lettura e il confronto con una realtà, totalmente diversa: quella genovese.
ed ora a noi: La scuola Quattordiese

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UNA SPLENDIDA EREDITA'



Premessa

Lo scopo di questa pubblicazione è dimostrare che va riconosciuto a Quattordio il diritto di fregiarsi
del titolo di Capitale della vernice in Italia, nonché uno dei principali poli europei, sia per le significative presenze industriali sul suo territorio e sia per aver dato origine ad una scuola manageriale di altissimo livello.
Quattro sono le aziende insediate in comune di Quattordio che hanno a che fare con il mondo del coating: innanzitutto la PPG di Pittsburgh, universalmente riconosciuta come il leader mondiale in campo automobilistico che, nel 1986, ha acquistato dalla Fiat la I.V.I. (all’epoca il maggior produttore nazionale) e successivamente il comparto del ritocco della Max Meyer (fondi e smalti per carrozzeria); a seguire la Veco (Sigillanti-Rivestimenti-Impermeabilizzanti), la Essex-invex (conduttori in rame isolati), la Deatech tedesca ( vernici per isolamento elettrico). A completare le presenze industriali locali vi è uno stabilimento Prysmian (cavi) ex Alfacavi, ex Pirelli, oggi di proprietà Goldman Sachs.

Tutti sanno che questo impressionante coacervo industriale, sviluppatosi nel trentennio a cavallo della Seconda guerra mondiale, è il frutto dell’operato di due persone, Giuseppe Fracchia e Cesare Pettazzi; molto è stato scritto su giornali, riviste, pubblicazioni a Loro dedicate, Cecilia Pettazzi ed Elena Berruti ne hanno fallo l'oggetto della loro tesi di laurea.

Si sa tutto sugli “ingegneri” e sul polo industriale che hanno creato; polo, è bene ricordarlo, fatto di quattro aziende (Inves, Invex, Cavis, Alfacavi) che, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, davano lavoro a circa tremila persone, indotto escluso. Ma è proprio vero che si è detto tutto?

Non si è dimenticato qualcosa di molto importante che gli Ingegneri hanno generato e che compensa largamente il fatto che i posti di lavoro con il tempo si siano dimezzati?

Non si è trascurato il lato culturale che l’imprenditoria intelligente porta con sé? Cominciamo con il dire che sia la tradizione, unita ai benefici che ne sono derivati, e sia la situazione attuale, inizialmente descritta, sarebbero già più che sufficienti per assegnare a Quattordio quel titolo di “Capitale del Coating” ipotizzato in precedenza ma, a rafforzare questi diritti, vi è una determinante considerazione da farsi, considerazione in parte geografica e in parte statistica, soprattutto considerazione connessa al tessuto culturale diffuso dai due fondatori.

Geograficamente parlando, è sufficiente alzare lo sguardo in provincia di Alessandria, ma anche altrove, per riscontrare effetti di outsourcing di matrice quattordiese mentre, affidandosi alla statistica, sorprende il numero di persone che, formatesi in quella realtà, hanno ricevuto successo come imprenditori, dirigenti, amministratori, consulenti, tecnici, anche in attività che nulla avevano a che fare con la vernice, la plastica, l’elettrotecnica.

Ed è riflettendo su queste vicende, alcune simile, altre differenti, altre addirittura stupefacenti, che si scopre un unico fil rouge fatto di serietà, tenacia, conoscenza, creatività;un fil rouge che porta inevitabilmente a supporre l’esistenza di una scuola comune e…………che scuola!

Completato così il quadro, sorprende, con tanto di amaro in bocca, l’indifferenza del Comune di Quattordio che, pur avendone avuto la possibilità, non ha sfruttato l’opportunità di trasformare un enorme patrimonio virtuale in una realtà vantaggiosa e prestigiosa per il territorio e per i suoi abitanti.









Gli allievi di successo

Questa immaginaria galleria si apre con il ritratto dell’allievo Numero uno, l’unico che, partito come dipendente, è diventato, strada facendo, partner dei due fondatori: Antonio Venezia.

Venezia, quattordiese, diplomato in ragioneria, Tunin per gli amici ma il “ragiu” per tutti gli altri, era entrato, dopo pochi anni di lavoro nel settore calzaturiero, nel 1931 nella Cesare Pettazzi che presto diventò Inves.

Assunto con incarichi amministrativi, diventa rapidamente il principale collaboratore del duo Fracchia-Pettazzi; il rapporto è talmente stretto che al nascere del progetto Invex, nel 1948, è proprio a Venezia che ne viene affidata la conduzione concedendogli nel contempo una partecipazione azionaria.
Il ragioniere porterà nella nuova società l’esperienza acquisita e sarà quel patrimonio a permettergli di condurre la Invex a divenire un indiscusso leader nel settore del filo di rame rivestito.

Oggi, come detto all’inizio, anche la Invex, dopo un passaggio nel Gruppo Pirelli, batte bandiera americana facendo parte del Gruppo Essex.



Nella seconda metà degli anni Cinquanta, nel gruppo quattordiese, giunsero i fratelli Paolo e Marco Bono, ingegnere il primo e chimico il secondo, ambedue reduci da un’ esperienza lavorativa degli Stati Uniti: Paolo affiancò Pino Codrino alla direzione della Cavis mentre Marco assunse la direzione tecnica della Inves.

Si fermarono alcuni anni ma è significativo il fatto che Gaudenzio Bono, all’epoca Amministratore delegato della Fiat, tra le innumerevoli strade che avrebbe potuto scegliere, mandasse i suoi figli alla scuola Fracchia-Pettazzi, a lavorare a fianco di due uomini di cui era evidentemente molto apprezzato il modo di condurre un’impresa.
Sia Paolo che Marco, pur essendo il primo mancato assai giovane, salirono nella gerarchia Fiat sino al vertice andando ad occupare, in tempi diversi, il ruolo di direttore delle Partecipazioni.



Uno dei personaggi più interessanti tra i tanti menzionati è Francesco Cordero, Cesco per tutti.

Entrato giovanissimo alla Inves nel 1938, digiuno di qualsiasi nozione di chimica, venendo da una formazione umanistica, Cordero dimostra un’innata ed ineguagliabile predisposizione per la corretta formulazione dei prodotti per cui, in breve tempo, diviene uno specialista del campo fino a vivere da protagonista uno dei momenti clou dell’azienda: l’ingresso tra i fornitori Fiat per gli smalti destinati al Lingotto.

Pur avendo raggiunto il ruolo responsabile tecnico della Inves, nel 1956, per motivi strettamente personali, Cesco lascia la Società in cui era nato e passa alle dipendenze di uno dei principali concorrenti nel settore delle vernici per isolamento, la Siva di Settimo Torinese. Sarà particolarmente fortunato perché resterà alla Siva per quindici anni, aggiungendo ai dettami della scuola Fracchia-Pettazzi gli insegnamenti di un maestro da favola, il dottor Primo Levi; più di ogni altro, toccherà con mano quanto la fama di grandissimo scrittore, da Levi giustamente acquisita, finirà per offuscare la sua altrettanto grande professionalità come tecnico del settore vernici.

Tra il ’71 e il ’76, Cordero rimarrà nel campo che gli è congeniale ampliando le sue conoscenze specifiche ma già teso a realizzare il sogno che da tanto tempo coltiva, quello di avere un’azienda tutta sua.

Nel 1976 nasce la Veco e, come è logico che sia, visto il background del suo ideatore, nasce indirizzata alla conquista di mercati nuovi con prodotti innovativi.

Nel tempo, ai protettivi per pavimenti, zoccolo duro dell’azienda, si aggiungeranno i mercati delle isolanti, del faidate, dei prodotti per usi militari.

La Veco, che conta oggi 35 dipendenti e fattura circa sette milioni di euro, è gestita da Guido Cordero e Mario Venezia, rispettivamente figlio e genero del fondatore, ma puntualmente ogni mattina

Cesco è presente nella sua azienda.



Altro caso assai rappresentativo per l’obiettivo do questa pubblicazione è quello di Pierluigi Barlotti.

Forlivese, perito chimico, arriva ventenne alla Inves nel 1962, dopo un breve passaggio alla Montecatini di Spinetta Marengo.

Barlotti resterà alla Inves, nel frattempo divenuta Ivi, fino al 1973 avendo assolto al compito di coordinatore dell’assistenza tecnica alla clientela.

Quell’anno, l’esperienza acquisita in materia di formule e di impianti unita al desiderio di mettersi in proprio, lo portano a dimettersi e a entrare in partecipazione in una piccola ditta lodigiana del comparto vernici, la Tego.
In breve tempo la Tego inizia a crescere in modo impressionante specializzandosi nella fabbricazione di prodotti destinati ad un nuovissimo sistema di verniciatura appena importato dal Canada:
il coil coating.

Fu una innovazione rivoluzionaria nel ciclo produttivo di molte aziende, in quanto, anziché stampare il manufatto e avviarlo poi alla verniciatura, si invertiva il processo utilizzando una lamiera (il coil) già verniciata che successivamente veniva stampata.

La Tego diventò un leader del settore ma non si fermò al coil anzi, usando questo canale come base, sotto l’impulso di Barlotti, estese la gamma dei suoi prodotti ad altri comparti industriali.

La crescita della Tego fu tale da suscitare, attorno al suo fatturato, gli interessi di gruppi internazionali finché, nel 1989, la società venne ceduta alla Backer che è, ancora oggi, il più importante gruppo europeo del settore vernici a conduzione familiare.

Ad amministrare la Tego, i nuovi proprietari hanno continuato a credere che la persona più indicata a farlo fosse proprio Pierluigi Barlotti.



Altro grande esempio di dirigente-imprenditore è Angelo Venezia, nipote del ragionier Venezia con cui abbiamo aperto.

Trascorsi vent’anni nell’alta direzione della Invex, allorché la società fu ceduta alla Pirelli, per la sua riconosciuta professionalità, Angelo Venezia entrò a far parte del vertice del Gruppo milanese come responsabile degli acquisti prima e quindi come coordinatore delle attività Pirelli in Spagna.

Ritornato, per i nuovi assetti Invex, a dirigere l’azienda, Venezia ne ha curato il passaggio alla Essex venendo cooptato nel Consiglio di Amministrazione.

Il profilo di Angelo Venezia si è arricchito per la presidenza dell’Unione industriale alessandrina mantenuto dal 1983 al 1987.



Matteo Chiesa, nato a Cambiano, giunge alla Cavis, trentenne perito chimico, nel 1960 e sarà per lungo tempo responsabile del Laboratorio della Società ma, fatto ancor più rilevante, sarà il punto di riferimento, in tema di materie plastiche, per il cavalier Ferraro che dirigeva il Servizio tecnologico in Fiat…..e qui va fatta una parentesi.

Italo Ferraro è uno splendido esempio di selfmademan. Nato a Casale nel 1908 seguì la famiglia spostatasi a Torino dopo la Prima Guerra Mondiale e, munito della sola licenza elementare, entrò giovanissimo nella Scuola Allievi Fiat di corso Bramante. Arrivò in fabbrica più o meno sedicenne e, percorrendo il tradizionale tragitto dell’epoca,
Spa-Lingotto-Mirafiori, salì gradualmente la piramide passando da semplice operaio a impiegato di concetto fin a raggiungere, nell’immediato dopoguerra, la dirigente e la conduzione del Servizio a cui facevano capo sia l’omologazione dei nuovi prodotti proposti dal Servizio Acquisti e sia il collaudo di qualsiasi fornitura.

Avere la stima di Ferraro era titolo di grande merito e Chiesa c’era riuscito. Era stato proprio Ferraro, avendone conosciuto le esperienze, a presentare Chiesa al duo Bono-Codrino, amministratori di Cavis. Chiesa, dopo un brillante servizio militare che lo consacrò tenente degli alpini, rinuncia alla gloria di una carriera al servizio della Patria per tuffarsi nella chimica.

Tuffo è il termine esatto per descrivere la gavetta del giovane perito che opera in tre piccole aziende torinesi sporcandosi, di volta in volta, le mani con glutammati, saponi, plastifici.

Sarà quest’ultima esperienza ad avviarlo in Cavis che di plastificanti fa larghissimo uso.

A fine anni settanta, un’opportunità sorta in Cavis offre a Chiesa il destro per tentare l’avventura imprenditoriale e, forte della professionalità acquisita, Chiesa non se la lascia sfuggire.

Fonda la Selepier, acronimo dai nomi dei suoi figli (Silvana, Eleonora, Pierpaolo), la cui attività è legata a processi di matrice serigrafica.

In termini generali, la serigrafia è un procedimento di stampa che utilizza inchiostri, avvalendosi di matrici setose che trasferiscono su supporti di varia natura i disegni o i motivi grafici prefissati.

A distanza di trent’anni, la Selepier, oggi gestita da Pierpaolo Chiesa, è un’azienda di piccole dimensioni, altamente specializzata, ben presente sui mercati di sua competenza in Italia e all’Estero.



A gennaio del 1955, fresco di diploma in ragioneria, viene assunto alla Inves Aurelio Cervetti che va a far parte della squadra di aldo Cacciabue, il leggendario “avvocato”, al quale fanno capo i servizi amministrativi, acquisti, personale.

Cervetti non si fermerà molto alla Inves perché, un paio di anni dopo, l’ingegner Fracchia lo porterà nella nascitura Alfacavi di cui sarà il direttore amministrativi fino al 1980.

In quell’anno Cervetti passa alla Alessio Tubi, uno dei più importanti produttori nazionali nel settore condutture, dove entra come Direttore amministrativo per raggiungere, in un secondo tempo, in grado di Direttore generale della Società.

Nel 1990, neopensionato, Cervetti non può rifiutare un’interessante proposta del Gruppo Valletto, fornitore Fiat di articoli in gomma targati Saiag e presente nella litolatta attraverso la Comital, che gli offre la carica di amministratore delegato della Patelec.

È questa un’azienda leader nella cavetteria, con due stabilimenti a Vercelli e Cerrina Monferrato, competitiva sul mercato essendo in grado di svolgere l’intero ciclo produttivo della trafilatura fino all’estrusione; in Patelec, Cervetti resterà fino al 1994 per concludere la sua carriera manageriale agli inizi del nuovo millennio in un’azienda elettrica di cui sarà anche azionista.

Per non perdere il vizio di lavorare e memore delle tradizioni familiari legate alla terra, nel 2008, Aurelio Cervetti inaugura un agriturismo a Serra di Quattordio.



In territorio di Boscomarengo è operante la Metlac le cui origini risalgono ai lontani anni Cinquanta, anni in cui la Inves siglò un accordo con l'inglese Coates; al tempo, la Coates era il maggior fabbricante al mondo di inchiostri da stampa e da litolatta al punto di avere una filiale o una concessionaria in tutti i Paesi del Commonwealth.

Va fatta, anche in questo caso, una parentesi invero assai curiosa.

A firma apposta in quel di Londra da Mr. Coates e dall’ingegner Pettazzi, il dottor Angelo Piroddi, agente Inves in Liguria, la cui amicizia con Mr. Coates era stata determinante per la trattativa, chiese che a seguire inizialmente la nuova attività fosse suo nipote. Giustificò la richiesta, facendo presente che si trattava di un giovane di bella presenza, notevolmente disinvolto, padrone del francese e dell’inglese; in parole povere il meglio che si potesse avere per il ruolo. E, realmente, quando, pochi giorni dopo, Piroddi junior arrivò a Quattordio, quella descrizione fu pienamente confermata; solo che il giovanotto si fermò con noi poche settimane in quanto sparì in modo quasi misterioso. Ne avremmo risentito parlare, qualche anno dopo, dalle cronache rosa di quotidiani e riviste che lo davano tra i più affermati playboy della Costa Azzurra nel ristretto entourage di Brigitte Bardot.

Alla inves, in primo tempo, il comparto litolatta fu affidato al dottor Arrigone e solo successivamente a Pier Ugo Bocchio, che era stato inviato in Inghilterra per un lungo stage presso la Coates.

Quando, nel 1986, la PPG acquisì in controllo della Ivi (nata nel ’66 dalla fusione Ivi-Inves) gli americani decisero di disfarsi dei settori che non li interessavano non rientrando nel core-businnes e proposero quindi a Bocchio, market manager della litolatta, di rilevare in toto attrezzature e personale.

Con un buona dose di coraggio, non disponendo di grandi capitali, ma con eccellenti compagni di strada, Bocchio affrontò l’impresa pervenendo a risultati che hanno dell’eccezionale poiché oggi la Metlac si colloca tra i primi cinque produttori al mondo nel can coating.

Ma cos’è il can coating o litolatta? In esso son compresi smalti, vernici, inchiostri, usati per proteggere internamente, se richiesto, e decorare esternamente contenitori in latta o alluminio per usi alimentari (es. antiparassitari), per la cura della persona, per usi industriali (es. pitture); si verniciano lattine, barattoli, scatole, bombolette, tubetti, capsule, tappi, coperchi e quant’altro.

Di questi prodotti il gruppo Metlac che comprende la M. Spa, il Ceritec (ricerca), la Metink, ne fabbrica 25000 ton/anno esportandone poco meno della metà in Europa, Asia, America, occupa un centinaio di dipendenti, trenta dei quali nella R&S, fattura circa 90 milioni di Euro.

Una visita allo stabilimento colpisce per la grandezza degli ambienti, esterni ed interni, per i materiali utilizzati per la costruzione, per il grado di sicurezza, per la giovane età del personale, ma stupisce addirittura per il livello dell’innovazione.

Sarebbe sufficiente citare il processo produttivo completamente computerizzato dal carico materie prime, passando per la miscelazione, fino al confezionamento eseguito dopo benestare del collaudo esso pure in automatico; un sistema con cui si arriva praticamente a ridurre a percentuali irrisorie l’errore umano, rischiosissimo per chi fabbrica materiali che vanno a contatto di generi alimentari, ma anche un sistema che abbatte drasticamente i costi di manodopera.

Altrettanto avanzata è la ricerca che unisce all’istituzionale obiettivo del miglioramento del prodotto, gli studi su metodi di applicazione rispettosi dell’ambiente colla riduzione dei solventi impiegati e meno costosi dati i risparmi energetici generati dall’adozione degli UV.

Come già detto, la seconda parte di questa pubblicazione è dedicata alla Scuola quattordiese ed ai suoi principi base. Li elenca PUB quando spiega come oggi la M. sia giunta così in alto: personale responsabile e motivato, feeling con clienti e fornitori, sguardo al futuro ovvero filosofia dell’innovazione continua.



A ulteriore conferma dell’esistenza di una scuola, vi sono casi nei quali, pur in assenza di un leader, il successo arride all’iniziativa per merito della squadra.

Tutti i singoli componenti hanno ricevuto l’insegnamento di base negli anni trascorsi nella casa-madre, ognuno porta le sue specifiche competenze, la somma di queste garantisce il risultato positivo.

Ne è un esempio, sempre legato al disegno di dismissioni avviato da PPG Italia (vedi Metlac), disegno ricorrente nelle strategie industriali statunitensi tese a puntare sul loro core-business, nello specifico l’automobile, la cessione delle vernici isolanti per motori e per conduttori in rame, il settore da cui la Inves era nata e sul quale si erano costruite le fortune del Gruppo.

Fu il terzetto Biorcio-Gastaldo-Mensi ad accettare la sfida. Appoggiati da un pool di imprenditori, partirono con un primo capannone costruito in zona industriale a Quattordio.

La società crebbe rapidamente seppure in un mercato assai competitivi costellato da molti abbandoni (tra i più recenti proprio la Siva di Primo levi) finendo per suscitare, alla stregua del caso Tego già visto, l’attenzione di grandi gruppi del settore.

Pochi anni orsono, all’azionariato di partenza è subentrato uno dei colossi mondiali, la tedesca Deatech, anche se, fino al loro pensionamento, a dirigerla sono rimasti i tre fondatori.

Un secondo spinoff di squadra la PPG lo promosse con il comparto polveri. Finanziariamente l’operazione fu condotta da un nipote dell’ingegner Fracchia, Pinuccio Codrino, che si avvalse sia dei dipendenti dello specifico settore (Lotto, Rossi, Devecchi, ecc…) che di esperti nel frattempo andati in pensione (Pinuccio Pezzi e Pierino Ponzano) per lanciare sul mercato il marchio Bellaria dal nome della località su cui era sorto, a Felizzano, il nuovo stabilimento.

Alle polveri, novità rivoluzionaria nel campo vernici, si era giunti in Inves dopo una visita a due aziende produttrici, l’olandese Wagemakers e la belga Libert Frèresbelga, visita fatta da chi scrive in compagnia del dottor Marco Bono. Dopo quella visita, malgrado la spinta dell’ingegner Pettazzi che ne aveva intuito la forza innovativa, tardammo ad installare il nuovo impianto che partì a fine anni Sessanta.

L’impianto, capace di molti quintali/giorno, era diviso in tre fasi: l’impasto a caldo di resine e pigmenti, la laminazione, la frantumazione. Per quella congenita tendenza alla ricerca propria della scuola Inves, fu installato in laboratori oil corrispondente impianto pilota.

Per oltre vent’anni produzione e ricerca continuarono e la Bellaria, che quel knowhow aveva ricevuto in eredità, lo utilizzò intelligentemente crescendo sul mercato ma diventato, dopo non moltissimo tempo, un tipico caso di buyback allorché le polveri trovarono impiego nel mondo dell’automobile per cui la PPG, con un’offerta difficile da rigettare, riportò l’azienda nell’ambito quattordiese.

Tecnico di grande valore e poi ottimo amministratore, Angelo Cavallotti, all’intelligenza e alla preparazione, aggiungeva una dote straordinaria, la facilità di instaurare con i collaboratori un rapporto caratterizzato da vincoli di stima e rispetto che nulla avevano di gerarchico poiché nascevano da una sincera amministrazione.

Il multiforme ingegno di Cavallotti lo si vide nei circa trent’anni trascorsi nelle vernici dove cominciò occupandosi di una serie di prodotti, gli adesivi e i sigillanti, che poco o nulla avevano in comune con il coating; il settore ebbe un’impostazione tesa ad una elevata specializzazione divenendo una componente significativa del fatturato societario. Secondo motivo di successo fu per Cavallotti l’obiettivo raggiunto in campo colorimetrico quando i progressi nelle apparecchiature di nuova generazione consentirono gradualmente di riprodurre una tinta senza ausilio dell’occhio, l’unico strumento sino ad allora conosciuto.

Infine fu affidata a Cavallotti la produzione delle resine per stampaggio che stavano introducendosi nell’automobile in sostituzione dei metalli come, ad esempio, nella fabbricazione dei paraurti.

Questo incarico ne cambiò la carriera in quanto ebbe modo di emergere la sua notevole capacità di gestione.

Quando le resine per stampaggio furono oggetto di dismissione e la PPG ne concesse la produzione alla Molding Compund ubicata a Brambate, in provincia di Bergamo, che apparteneva a una multinazionale svizzera,
l’Alusuisse, questa chiese di avvalersi dell’operato del dottor Cavallotti.

Scelta indovinatissima; il neo Amministratore delegato unì, alle note doti professionali, una insospettata managerialità portando la sua nuova società, nei tredici anni in cui ne fu capo, alla leadership nel mercato di sua competenza.



Professionalità e serietà, doti che connotavano chi aveva lavorato nel Gruppo, trovavano, nel caso di passaggio ad altra azienda, l’immediato apprezzamento di colleghi e collaboratori.

Citando solo alcuni casi, ricordo Costa, Gigi Massobrio, Paolo Lecchi, Aldo Cacciabue, Gino Lombardi, Gherlone.



Altri esempi di successo si riscontrano tra coloro che, educati alla scuola quattordiese, si sono trovati a riscoprire, durante il loro percorso di lavoro oppure al termine dello stesso, importanti incarichi che nulla avevano a che fare con le specifiche esperienze acquisite in azienda. Sono degni di segnalazione Anna Corti come prima donna a presiedere un Lyons alessandrino, Adelmo Arrigone al vertice dell’assemblea dei Comuni della USL alessandrina, Emilio Venezia il cui contributo fu determinante per dare al Toro l’unico scudetto del dopo Superga, Tuccio Parodi membro del Cda della fondazione Cassa di Risparmio Alessandria.

In questo raggruppamento vi è però un caso che ha dello stupefacente: Giulio Griffi.

Griffi, diplomato geometra, arriva all’Alfacavi negli anni Settanta con un passato da calciatore di buon livello che ne farà una delle colonne dell’U.S.Quattordio che raggiunse all’epoca il suo massimo splendore.

Dopo circa vent’anni di fabbrica nella quale, in virtù del suo titoli di studio, si era occupato del settore tecnico-immobiliare, si presentò a Griffi l’opportunità di coadiuvare nella gestione del Golf Club Margara di Fubine. Qui, l’intelligenza personale, rafforzata dall’innata passione per lo sport e dall’esperienza aziendale, condurrà Giulio Griffi ad una brillantissima carriera che lo colloca oggi, a detta di moltissimi esperti ad appassionati, tra i migliori direttori generali in un’area in grandissima espansione nel nostro Paese.

E Griffi non si è accontentato di far conoscere il Club Margara come soci e come reputazione ma, nel frattempo, è divenuto uno dei più quotati arbitri di golf in circolazione in Italia.



Accanto ai tanti significativi history cases riportati, si potrebbero ancora elencare numerose realtà minori dove ex-dipendenti del Gruppo hanno dato vita, sempre con eccellenti risultati, ad attività collegate a quanto appreso in fabbrica (chi scrive ha contribuito con altri ex-Inves alla nascita dell’Apas tuttora operante nella chimica fine a Solero) ma desidero illustrarne una, di tutt’altro genere, riconducibile, a mio avviso, al rispetto dei canoni di quella che ho definito la Scuola quattordiese.



Chi si trova oggi a transitare per l’abitato di Quattordio alle prime luci dell’alba, intorno al mezzogiorno, oppure ancora di sera, non può fare ameno di notare le decine e decine di camion fermi sui due piazzali che fiancheggiano il Bar Sport; se poi volesse curiosare, registrerebbe, tra tanti automezzi, le targhe di tutta l’Europa.

Come spiegare un successo ormai di lunga data e le capacità che lo hanno generato e sostenuto?

Non è una lunga militanza alla Inves che accomuna Natale Capra, una vita trascorsa al reparto macinazione, ed enrico Toselli, camionista di lungo corso, succedutisi nella gestione?

Io sono convinto che sia penetrato in loro un concetto sacrale del lavoro, il prendere atto che qualsiasi risultato è, prima di tutto, frutto di tanta fatica, l’essere consci del senso di responsabilità, il sapere che il terminale del percorso è il cliente e che solo la soddisfazione delle sue aspettative promuove il prodotto.

E non sono questi i principi che si acquisivano frequentando la scuola Fracchia-Pettazzi?



Nella seconda parte del testo, proverò a definire i punti fondamentali che ispiravano l’approccio al mondo del lavoro per chiunque arrivasse a far parte del Gruppo.

Come vedremo, quei principi dovevano essere pienamente condivisi dai fornitori con i quali si instaurava un legame fiduciario che, ricordandoci sempre che siamo nei primi anni del secondo dopoguerra, era al tempo sconosciuto.

Questo rapporto, particolarmente sentito dalle ditte locali, ha seminato imprenditorialità che si è sviluppata laddove ha trovato terreno fertile; esempi ne sono la carpenteria Galizia, le meccaniche Colonna e Margarino, la produzione di contenitori a Incisa Scapaccino, l’edile Torchio arrivata ormai alla quarta generazione, ma il caso più eclatante è certamente la famiglia Cozzo.



I Cozzo avevano cominciato il loro tragitto imprenditoriale come semplici assemblatori analogamente al percorso seguito da tantissime microaziende nate sulla scia dei lavori in conto lavorazione provenienti dalla Cavis. Si potrebbe parlare di un piccolo boom quando, a Felizzano, prende avvio la fabbricazione del devio-guido-sgancia ovvero l’introduzione dell’elettronica nella produzione dell’automobile.

La seconda generazione dei Cozzo, dove emerse il talento del giovane Giampiero, ha colto l’occasione che si presentava specializzandosi proprio nel nascente comparto elettronico dando vita ad un piccolo impero industriale che dall'Italia si è esteso prima alla Polonia e quindi al Brasile.



Senza alcun dubbio , il maggior beneficiario del patrimonio formativo delle aziende locali è stato il Comune di Quattordio che ha avuto tre sindaci (Pettazzi, G.Venezia, Poggio) e numerosi assessori Arrigoni, Cervetti, Pozzi, Tedeschi, torti, A. Venezia).

Si arrivò a sette consiglieri, sindaco incluso, nella giunta che diede, finalmente, al paese una sede municipale, Palazzo Negri di Sanfront, degna di un ente istituzionale quale appunto è un municipio.



Per confermare la serenità con la quale la preparazione assorbita consentiva di affrontare prove di notevole difficoltà, chiudo questa rassegna con le mie esperienze personali: ho fatto parte di numerosi CdA, tra gli altri Max Meyer, Boston, Cofisal come Ad, Parco scientifico di Tortona, ma ho anche presieduto i CdA di Finpiemonte, Parco tecnologico di Verbania, Prosa Salone del Libro, Tecnorete Piemonte, Amag di Alessandria, campi di attività ben diversi ma tutti impegnativi. Ho avuto dubbi, nei periodi iniziali, per inevitabili carenze specifiche derivanti dalla scarsa conoscenza del settore, non ne ho mai avuti sugli indirizzi, sulle scelte, sulla conduzione in generale. E non sembri presunzione. Come detto, era la serenità risultante dalla padronanza di una metodologia collaudatissima.



LA SCUOLA

Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, inizia un movimento industriale che porterà alla costituzione di quell’insieme di PMI e di inerenti distretti che ancora oggi restano il tessuto imprenditoriale di questo Paese, tessuto che è stato oggetto di studio di ricercatori, economisti, consulenti di molte nazioni occidentali.

In partenza, è un tessuto fragile perché fatto, in gran parte da autodidatti, privi di una solida preparazione manageriale ma spinti da un’innata tendenza a fare impresa.

Più o meno, reggeranno tutti fino a che l’offerta sarà trascinata da una domanda in crescita costante ovvero fino agli anni Settanta allorchè le due crisi petrolifere, susseguitesi a distanza di poco tempo, ripristineranno le regole del mercato concorrenziale. Si salveranno coloro che, nel frattempo, si saranno dotati di una struttura professionalmente preparata e provvista delle necessarie competenze.

L’esempio più calzante di questo andamento è il comparto degli elettrodomestici che la Inves conobbe molto bene per essere stata, all’epoca, un leader nella fornitura degli smalti.
In un decennio, tra il 1946 e il 1956, molti fabbricanti di cucine economiche si erano trasformati in produttori di frigoriferi prima, di lavatrici poi, di grandi cucine e lavastoviglie per ultimi; da Pordenone e Messina, erano poche le regioni in cui non esistesse almeno un’industria del “bianco”, fenomeno che aveva portato l’Italia ad essere il primo produttore europeo del settore, il seconde nel mondo dopo gli USA.
Oggi sono ancora italiane la Merloni-Indesit e la Candy della famiglia Fumagalli; non lo sono più Ignis, Zanussi, Zoppas, Becchi, Castor, Ocean, ma la gran parte è scomparsa oppure ha abbandonato: Fiat, CGE, Ceramiche Laveno, Minerva, Stice, Tasselli, SanGiorgio, ecc. Faccio una parentesi doverosa, avendo avuto il privilegio di collaborare con Lino Zanussi, prima per la trattativa che portò la Inves, nel lontano 1957, a sostituire l’inglese ICI come principale fornitore di vernici di quell’azienda allora nota come Rex e poi, nel biennio ’63-’64, per avviare l’impianto di Alcalà de Henares della consociata spagnola della Zanussi. L’ingegnere Lino Zanussi era uomo di grandi capacità manageriali e aveva trasformato la società in un complesso moderno sotto ogni punto di vista, in primis nella organizzazione interna essendosi circondato di una squadra di giovani quanto valentissimi collaboratori. Ben diverso sarebbe stato il destino della Zanussi se un maledetto incidente aereo, avvenuto proprio in Spagna, non l’avesse privata del suo Titolare e dell’ingegner Divora che era il Direttore Generale del Gruppo. Anche l’area alessandrina, nello specifico quella casalese, ha vissuto una situazione analoga; si partì da un formarsi di un distretto del freddo per banchi frigoriferi gemmato dalla Franger seguita dalla Mondial per arrivare al sorgere di un gruppo internazionale, la IAR, che aveva anche incorporato una ditta assai nota nel campo, la Siltal di Abbiategrasso.

Ancora oggi si stanno vivendo momenti molto tristi per le tante persone coinvolte.

Ho attribuito il sopracitato terremoto, che non toccò solo l’elettrodomestico (basta pensare all’auto, Alfa e Lancia come simboli), a carenze di competenze manageriali; per contrapposizione, salta agli occhi il metodo di gestione del polo quattordiese. Teniamo sempre presente che stiamo parlando dei primi anni Cinquanta, anni nei quali la parola formazione si usava per indicare gli undici componenti di una squadra di calcio (al tempo i cambi non erano ammessi) oppure la distribuzione di un reggimento o di uno stormo nel corso di una parata militare.
A Marentino, la scuola di formazione per dirigenti del gruppo Fiat, i corsi sarebbero iniziati un quindicina di anni dopo e, quando mi capitò l’occasione di illustrarne il funzionamento all’ingegner Fracchia, ne ricevetti una chiosa illuminante: “ Molto, molto interessante, anche se io penso che la formazione migliore la si faccia in fabbrica tutti i giorni che ha creato Dio”.

In questa frase è contenuto il nocciolo del pensiero su cui poggiava il metodo di lavoro degli Ingegneri.
Ho lavorato vent’anni al loro fianco e tante volte mi sono chiesto su quale molla avessero fatto leva per giungere al successo poco più che trentenni, quale forza interiore li avesse spinti al miglioramento continuo, quale virtù ne facesse una copia formidabile. Ho un’interpretazione personale: credo che tutto sia nato dal rigore assoluto del loro operato, frutto dell’umanesimo di cui era impregnato l’ingegner Pettazzi e del pragmatismo assorbito negli USA dall’ ingegner Fracchia. Da quel rigore discendeva l’abitudine a fare le cose bene sin dai tempi delle prime vernici fabbricate nella cantina di casa Pettazzi, l’abitudine al miglioramento costante (il pragmatico), l’abitudine a tendere alla perfezione (l’umanista). Era un rigore fatto di attaccamento al lavoro e alla famiglia, rispetto dei valori cristiani, indifferenza ad effimeri riconoscimenti; non se ne sono mai distaccati, hanno continuato a pretendere prima da se stessi per poi pretendere dagli altri e, con il tempo, chi è cresciuto a quella scuola, ha capito che non vi è modo migliore per giudicare l’effettivo valore degli uomini e delle cose. E di qui prendeva corpo la chiave di volta del processo formativo ovvero l’importanza fondamentale che si attribuiva alle persone, a tutte le persone dell’azienda per far si che quei principi diventassero patrimonio comune: l’arricchimento del singolo confluiva nel sapere generale, punto di forza dell’intero gruppo. Il processo non era programmato, non si tenevano corsi specialistici ma tutto si svolgeva nella quotidianità, servendosi di tre modelli. Il primo era l’esempio perché il rigore dianzi citato era sotto gli occhi di tutti con la continua presenza degli Ingegneri in fabbrica, la semplicità della loro vita, i valori che li guidavano. In secondo luogo stava il rapporto diretto fatto di incontri a quattrocchi dove venivi stimolato ad una sempre maggiore conoscenza del settore quando nasceva un problema di non facile soluzione o quando i pareri sull’argomento erano discordi tra loro; si può dire che il motto della Inves fosse: “Dirigere è prevedere, ma prevedere è conoscere” ovvero, approfondendo il tema oggetto di discussione, si giunge ad una decisione che ha ridotto al minimo le possibilità di errore.
Infine c’era l’occasione e era quando ti capitava di fare un’affermazione, inconsapevolmente sbagliata, che veniva colta al volo per chiarirti un concetto molto importante: così la volta che coinvolgevi nella colpa un tuo collaboratore, ti veniva elegantemente ricordato che il pesce, se puzza, puzza sempre dalla testa. Oppure, quando sostenevi che la materia prima fondamentale in azienda era il biossido di titanio, TI SI SPIEGAVA CHE LA MATERIA PRIMA CON CUI SI COSTRUIVA UN'AZIENDA ERANO LE PERSONE.
E ancora, di non stabilire date fisse per rivedere le posizioni del personale da te dipendente ma di valutarne le capacità per anticipare un riconoscimento che avrebbe avuto meno efficacia se concesso in Ritardo. Altrettanto avanzate erano, per l’epoca, le trattative con i fornitori e le relazioni con i clienti. Con i primi si instaurava un rapporto fiduciario non limitato alle condizioni economiche bensì inteso a creare una stretta collaborazione che privilegiava l’azienda al momento in cui il fornitore era in grado di presentare un prodotto o un impianto innovativo; si godeva di una sorta di prelazione.

Tanti gli esempi: fu la Inves a sperimentare nel 1957 le resine epossidiche della Shell, ancora la Inves ad adottare la cottura in caldaia chiusa ad olio diatermico, sempre la Inves ad impiegare i molini a sabbia della Chicago Boilers per la raffinazione degli smalti.
Questa filosofia si legava al modo di operare con i clienti per i quali si aveva il massimo rispetto sapendo che erano i garanti del fatturato aziendale ma che non avevano sempre ragione come recitava uno slogan in voga a quel tempo.
E allora, il cliente andava soddisfatto in termini di concorrenza, servizio, qualità dei prodotti, assistenza post-vendita, ma occorreva anche conoscerne a fondo le esigenze, in particolare quelle del suo mercato, per cercare di trasferirgli l’innovazione più piccola ma costituente comunque un plus commerciale.

Riassumendo si puntava a dare alla clientela la sensazione di essere un fornitore altamente qualificato, profondo conoscitore dei prodotti che vendeva sotto ogni aspetto applicativo ma altresì propositivo al nascere di nuove richieste.

D’altronde, ci era stato insegnato che una trattativa ha solo due sbocchi: si copia un prodotto concorrente battendolo sul prezzo oppure si presenta un prodotto migliore spuntando un quotazione vantaggiosa; dubbi sulla via da seguire ne avevamo pochissimi.

E’ chiaro come tale impostazione nei contatti con fornitori e clienti andasse nella direzione del continuo arricchimento descritto in precedenza e che, gradualmente, vi fossero persone che avevano assorbito la lezione societaria e che divenissero titolari di deleghe di sempre maggior ampiezza.

Per tutto ciò, la piccola Inves di fine anni Cinquanta disponeva di una struttura con tre dirigenti cui facevano capo le funzioni amministrativa, commerciale e tecnica.

All’epoca, in ditte assai più grandi, la minima decisione andava vista con il titolare e questo fatto fu il nocciolo di quella impreparazione manageriale che tanti danni ha provocato quando cessò il famoso miracolo.

La metodologia quattordiese può apparire, oggi, la scoperta dell’acqua calda per chi i tempi non li ha vissuti ma, sessant’anni fa, fu la discriminante tra successo, se adottata, e fallimento se ignorata.

Da tempo si sa l’importanza del personale diventato “risorsa umana” e della necessità del suo coinvolgimento, tutti ormai sanno degli stakeolders, si fanno appositi corsi sul valore dell’innovazione o della valutazione meritocratica con in più le tante tecnologie gestionali introdotte. All’epoca non era così, tanto che quasi ogni Comune italiano potrebbe fare degli esempi di aziende scomparse, dopo aver occupato, magari per molti anni, posizione di rilievo nel proprio comparto.

Giocarono le differenze di conduzione come può dimostrare un particolare insignificante (o no?): in anni nei quali l’attesa al telefono, nella maggioranza delle ditte, era lunghissima e la risposta anche scortese, a Quattordio ci si sentiva subito interpellati così: “Buongiorno, qui è la Inves!”.
D’altronde, anche anche in questa area si sono avvertiti i riflessi del processo industriale avviato negli anni Settanta.

La Inves, divenuta prima Ivi e poi PPG, come la Invex passata a Pirelli e poi a Essex, sono tuttora leader di settore mentre ben differente è stata la sorte di Cavis e Alfacavi, forse nate con minor necessità di competere.

La Cavis, appartenente al momento al gruppo Valeo, ha subito un drastico ridimensionamento, passando dagli oltre mille dipendenti agli attuali duecento o poco più, ma essa era nata in piena epoca di verticalizzazione quando la Fiat arrivò ad auto produrre tutti i componenti dell’auto salvo i pneumatici perché, si diceva, lo aveva impedito l’amicizia tra Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli; allorchè si trovò ad operare sul mercato, la Cavis si rivelò impreparata.

Più complessa l’analisi per l’Alfacavi confluita in Pirelli e scomparsa da Quattordio; in parte venne a mancare il mercato che ci si attendeva dopo la nazionalizzazione del comparto elettrico e in parte non favorirono la società, le strategie adottate dal partner SME.

Per tutte queste considerazioni ritengo che sia giusto parlare di Scuola quattordiese e ricordare Giuseppe Fracchia e Cesare Pettazzi non solo come grandi imprenditori capaci di creare molte migliaia di posti di lavoro ma anche come due Maestri che hanno insegnato come governare un’azienda a decine di allievi che, come si è visto, ne hanno onorato la memoria.



LA CONFERMA SUL CAMPO

La storia della Inves , poi divenuta Ivi e poi PPG, si può dividere in quattro periodi:
 La fase iniziale (1931-1945), fondamentale per la crescita della società, tutta incentrata sulla presentazione al mercato italiano di vernici isolanti di nuova formulazione ed, in un secondo tempo, sulla messa a punto dei primi colorati tra i quali emergerà un’antiruggine di matrice tedesca destinata a grandi successi in campo navale ed aeronautico (Tekital).
 Il periodo aureo (1946-1966) ovvero il boom della diversificazione produttiva, del moltiplicarsi di personale e impianti, dell'espansione commerciale, del sorgere delle azienda consorelle.
 L’incorporazione nella IVI (1967-1976) con il lento ma inesorabile spegnersi dell’entusiasmo vitale e un evidente declino aziendale.
 La svolta (post ’76) con la direzione Saporiti e la riscoperta dei valori Inves; conseguente recupero di credibilità e susseguente cessione del pacchetto azionario agli americani.

Non ho partecipato, per motivi anagrafici, alla fase 1 e non c’ero più, avendo lasciato la società nel ’74, nella fase 4; non sono comunque questi i periodi determinanti per la dimostrazione della mia tesi. Determinanti sono le fasi 2 e 3 ed è di quegli anni che parlerò, in particolare di quelli nei quali la Inves, trasformata in IVI e accantonato l’insegnamento formulato dai suoi fondatori, vive la sua stagione più triste per tornare a splendere una volta ripresa la retta via.









IL PERIODO AUREO (1946-1966)

Quel ventennio fu aureo per Quattordio ma lo fu anche in tutto il paese che si sviluppava a tassi di crescita annuali a due cifre il che permise ad una dirigenza accorta come quella della Inves di capitalizzare quelle opportunità, mantenendo e rafforzando i mercati della fase avanguardistica, ma altresì segnando significative presenze:
- nell’automobile (Fiat Lingotto, Mirafiori, Pininfarina, Autobianchi);
- nei furgonati (Fiat Napoli, OM Suzzara);
- nella componentistica (ruote, fanali, marmitte…);
- nell’elettrodomestico (Zanussi,CGE, Indesit, Minerva, Siltal, Franger, Fiat, Ceramiche Laveno, Costan,…);
- nei mobili metallici (Trau, Siemens….):
- nella biciclette (Carnielli, Rizzato….);
- nella litolatta (Superbox, Faba, Tubettificio Ligure….);
- nell’ aereonautica (FiatVelivoli, Aerfer, Macchi, Piaggio, Siai Marchetti);
- nella Marina Militare (arsenali di La Spezia, Taranto, Messina….)
- negli adesivi e sigillanti (Gruppo Fiat);
Di pari passo era proceduto il rafforzamento del personale: al sottoscritto, unico dipendente laureato tecnico, si erano aggiunti ben cinque chimici (Lecchi,Arrigone,Bono,Pezzi,Cavallotti) oltre ad un bel manipolo di periti (Presciutti,Barlotti,Bocchio,Salini); anche il servizio impianti era stato potenziato con l’arrivo di Sclauzero, Torti e Rapetti. Ad ulteriore conferma della bontà della scuola, in quel periodo furono assunti, come aiutanti, molti ragazzi (si poteva essere assunti a quattordici anni) e alcuni tra loro fecero una brillante carriera (Gigi Pozzi,Dante Lachello,Franco Berruti,Peppino Cavallero,Gianni Tedeschi,Franca Fiori….).



Visto ciò che si è detto in precedenza, non deve stupire che la Inves, nei primissima anni Sessanta, avesse un organigramma come il seguente:

Amministratore delegato
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............ |servizi impianti|
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direz. amm. --- dir. tecn. --- dir.comm.


cont. acq. pers.// prod. coll. lab.// Ass.tecn. ordini




Struttura indispensabile perché l’espansione del fatturato aveva obbligato ad ampliare l’organizzazione societaria in ogni settore con sempre maggior coinvolgimento dei singoli e loro responsabilizzazione.
Si erano infittiti gli scambi con società estere operanti nel nostro settore: oltre alla Coates inglese, avevamo contatti con la francese Caourep, la spagnola Urruzola, l’austriaca Vianova, la statunitense Cook, le tedesche Bergolin e Teroson. Ma anche l’allargamento del mercato, come prodotti e come estensione geografica, ci aveva portati da un approccio quasi esclusivamente direzionale al nascere di un’organizzazione commerciale, completa di assistenza tecnica, circoscritta alle regioni ad elevata industrializzazione:
- in Piemonte , D’Ormea e Bertoglio;
- in Lombardia, Astori, poi Arpe e Lobina;
- in Veneto, Miotti e Brunati;
- in Emilia, Benedini;
- in Liguria, Piroddi e Pio;
- nel Lazio, Tiribocchi;
- in Campania, Pierro.
Al traino Fiat, con la quale i rapporti erano sempre più stretti, cominciammo ad esportare nei paesi dove esisteva una joint-venture torinese, come Polonia, Jugoslavia, Marocco, Turchia, Spagna, Unione Sovietica. In conclusione, a metà anni Settanta, la Inves era un’azienda di grande prestigio, fortemente motivata, leader in Italia nelle vernici per usi industriali, ben amministrata come dicevano i bilanci,…….. prossima a sparire.

Per raccontare come sarebbe sparita la Inves, bisogna risalire a fine anni Cinquanta, momento in cui la Fiat, dopo un rapida trattativa preceduta dalla visita a Quattordio del Professor Valletta, acquisisce la maggioranza relativa della Società. Nasce una Società per azioni (la Inves era un’accomandita) con un Consiglio di Amministrazione che ha tre membri di nomina Fiat con Presidente il ragionier Bozzola, e due di minoranza, Fracchia e Pettazzi. Nella sostanza nulla cambia in quanto l’ingegner Pettazzi mantiene i poteri di Amministratore Delegato proseguendo da solo a condurre l’azienda nel modo a Lui congeniale anche perché l’ingegner Fracchia è quasi completamente dedicato alla nascitura Alfacavi. Forse qualche sospetto avrebbe potuto farlo intravedere il fatto che Bozzola fosse anche il Presidente della IVI e che difficilmente veniva messo a capo di organizzazioni immutate nel tempo, ma l’assenza di scosse dopo il passaggio azionario aveva agito da tranquillante.
Il ragionier Carlo Bozzola era una figura circondata da un alone di mistero perché, pur essendo tutti a conoscenza dello strettissimo legame che lo univa al professor Valletta, non era un dipendente Fiat, non aveva uffici presso la Casa-madre, operava in un piccolo appartamento al secondo piano di un edificio di via Alfieri a Torino, sopra la sede dell’Automobil Club, con uno staff di cinque o sei impiegati silenziosissimi. Si sussurrava che lì venissero elaborate le più segrete strategie finanziarie del Gruppo. Carlo Bozzola era un signore, di tratto e nei modi, un uomo dell’Ottocento di qualche anni più anziano degli Ingegneri, nati ambedue nel 1901, di una riservatezza leggendaria; a me ricordava il protagonista di un bellissimo quanto triste film di DeSica, Umberto D.
La telefonata riportata di seguito, telefonata di sicuro avvenuta, dice di Bozzola più di quanto possa dire un’intera biografia: Segretaria: Buongiorno ragionier Bozzola, le passo il professore. Valletta: Buongiorno Bozzola, avrei urgente necessità di vederla. Bozzola: Mi dica professore, quando le andrebbe bene? Valletta: Purtroppo oggi è già giovedì e sono bloccato da vari impegni, domani sono a Roma e rientro a tarda sera, per cui assolutamente sabato. Bozzola: A che ora sabato, professore? Valletta: L’ideale per me è mezzogiorno. Bozzola: No professore, a mezzogiorno non posso. Valletta: Mi dispiace Bozzola, disdica l’impegno che ha e venga a mezzogiorno! Bozzola: Anche a me spiace professore, ma a quell’ora proprio non posso; se le va bene sono disponibile alle 11.30 oppure alle 12.30. Valletta: Ma cosa fa di così importante a mezzogiorno? Bozzola: Mi sposo.

Le acque incominciarono ad intorbidirsi a cavallo ’64-’65 a seguito di tre avvenimenti. Il primo fu il trasferimento a Milano di Marco Bono, direttore tecnico della Inves, promosso alla Vicedirezione generale della IVI. Il secondo, il rinnovo del CdA Inves, nel quale, a fianco dei confermati Bozzola, Fracchia, Pettazzi, entrarono l’ingegner Carlo Bartolomei Corsi, direttore generale IVI, e l’ingegner Carlo Felice Bona, responsabile dei laboratori della Fiat Auto; si trattava di due persone coinvolte nel campo della vernice e conoscitori del settore. Fu il terzo episodio a segnare un svolta: il CdA nominò un comitato di coordinamento, se ben ricordo databile agli inizi del’65, che, presieduto da Bozzola, aveva come rappresentanti Bartolomei e Bono per la IVI, Pettazzi e Poggio per la Inves.
Va detto che la IVI manifestava da tempo un certo fastidio per l’indipendenza Inves; la IVI soffriva un po’ della stima che i vertici Fiat nutrivano per gli ingegneri, dei successi di Quattordio sul mercato industriale, dell’aver dovuto per anni acquistare dalla Inves le resine per gli smalti destinati all’automobile. Negli ultimi tempi, Milano aveva lamentato alcuni disguidi tra agenti delle due aziende non consoni a due società con lo stesso azionista maggioritario, ma l’occasione per giustificare un coordinamento delle rispettive attività la offrimmo noi su un piatto d’argento.
Come accennato in precedenza, noi avevamo nel Lazio un giovane rappresentante, tale Tiribocchi. Lo avevamo assunto anche se digiuno di vernici per la sua notevole intraprendenza e per l’innata capacità di vendere. In effetti, in poco tempo, Tiribocchi si era procurato un discreto portafoglio di clienti industriali per i quali ricevevamo delle relazioni con una terminologia ignota nel lessico tecnico-commerciale del settore; era una miscela di romanesco e di parole onomatopeiche tanto colorita quanto efficace. Il Tiribocchi, come detto molto sveglio, scoprì facilmente che in un mondo che stava motorizzandosi a vista d’occhio, un carrozziere di media dimensione consumava vernici quanto un buon cliente industriale e che di carrozzieri del genere non era solo piena Roma ma tutto il Lazio. La Inves forniva solo la Fiat e non Lancia, Alfa, Maserati, ma all’epoca due vetture su tre erano di marca Fiat. I ritocchi venivano eseguiti con pistole a spruzzo e con lacche alla nitrocellulosa di cui la Inves era esperta avendoli testati sia sulle automobili che sugli aerei; non vi fu quindi alcun problema ad evadere gli ordini giunti da Roma in quantità sempre più interessanti. Non ricordo esattamente quanto durarono le forniture, a memoria non più di un paio di mesi, ma ricordo invece perfettamente lo svolgersi della prima riunione del Comitato o meglio del processo a porte aperte che si svolse in quegli anonimi uffici torinesi di Via Alfieri. Tutto quanto ruotò intorno ad una dettagliata relazione della direzione commerciale IVI che il dottor Bono lesse sottolineando non solo le lamentele della ditta Marcucci, rappresentante IVI nel Lazio, che in alcuni casi aveva visto soppiantato il suo prodotto, ma facendo altresì presente la gravità di una concorrenza sul mercato tra due aziende aventi sostanzialmente un identico azionista. Considerato che l’ingegner Pettazzi era si e no al corrente del fatto, l’imputato ero io come responsabile dei mercati Inves e l’errore era palese e indifendibile; lo ammisi ma cercai di giustificare l' operazione sulla falsariga dei vantaggi che molte Case, produttrici di beni di largo consumo, ottenevano immettendo sul mercato marchi diversi, ma non convinsi l’uditorio. Furono presi i primi provvedimenti: l’impossibilità Inves di affacciarsi su nuovi mercati senza preventivi contatti con IVI, la predisposizione di una mappatura della nostra organizzazione commerciale con indicazione dei clienti (ci dissero per proteggerli da offerte IVI), la periodicità delle riunioni del Comitato (un mercoledì al mese) per verificare il buon andamento dei rapporti interaziendali. Nell’occasione mi ritenni responsabile di una imperdonabile leggerezza, ma non ci volle molto per capire, soprattutto nelle riunioni del Comitato, che aleggiava la volontà di risolvere il problema con una fusione. La storia ha dato ragione a quel progetto se è vero, com’è vero, che a Quattordio esiste oggi la più importante azienda nazionale del settore, una delle principali in Europa, ma la storia dice anche che si sarebbe potuto fare meglio. Con alle spalle cinquant’anni di esperienze manageriali, quel piano mi è ancora più evidente nella sua complementarità perché le due aziende unite avrebbero pressoché coperto tutti i comparti del campo vernici (rimanevano esclusi i prodotti per legno), disponevano di una capacità di acquisto che, sommata, avrebbe da sola portato un notevole flusso finanziario, potevano razionalizzare le rispettive strutture con risparmi e sinergie.
Perché non avvenne?
Credo per due motivi, uno interno e l’altro esterno. Alla fusione si arrivò, come recita il verbale del CdA della IVI in data 30.11.1966, presenti Bozzola (presidente), Bartolomei Corsi (vicepresidente), Pettazzi (vicepresidente), Bona e Benalli (consiglieri), assenti Fracchia e Pozzi con la comunicazione che: ”In esecuzione dei deliberati dell’Assemblea, in data odierna è stato stipulato, rogito Notaio Moroni, l’incorporazione della Inves Vernici e Smalti Spa già corrente in Quattordio.” Ritornando all’epoca, tra Milano e Quattordio esisteva una indiscussa rivalità, la reciproca convinzione di essere uno migliore dell’altro, profonde antipatie personali. Negli incontri internazionali, qualunque fosse il tema al centro del dibattito, si toccavano con mano diffidenze e ritrosie a collaborare. Si aggiungevano i tanti pettegolezzi che nascevano da un mondo comune fatto di clienti, fornitori, impiantisti ed ecco il motivo interno per il quale un progetto che aveva tutte le carte in regola per dar luogo ad un grande risultato si trascinò stancamente per anni prima di concretizzarsi. Una situazione siffatta obbligava a provvedimenti eccezionali ma esigeva anche, da chi tali provvedimenti avrebbe dovuto assumere, una conoscenza generica del mondo delle vernici e una dettagliata delle due società. Per evitare il ristagno citato e durato anni, ci sarebbe voluto un dirigente padrone della storia, del patrimonio tecnico- culturale, del valore degli uomini, dei punti forti e dei punti deboli sia della IVI che della Inves. Uno c’era, ma a questa infelice situazione interna che avrebbe richiesto pesanti interventi chirurgici, si aggiunse un avvenimento esterno che modificò profondamente gerarchie e orientamenti della Fiat e, a cascata, delle sue partecipate: la morte del professor Valletta nell’estate del ’67. Iniziava l’era Agnelli, in pochi anni sarebbe scomparsa la Fiat dei “Cavalieri” sostituita da quella degli Ingegneri, sarebbe cresciuta la verticalizzazione, avremmo visto nascere una nuova struttura con sempre maggior peso dell’universo delle partecipate giunte ormai a diverse e svariate decine. Come vedremo, questo vortice, avrebbe pesato, in modo determinante, sulla vicenda IVI-Inves.
Personalmente ho lavorato vent’anni nell’universo dei Cavalieri, i vent’anni del dopo laurea in un Italia che cresceva impetuosamente; quelli anni formidabili, non quelli del ’68… Sulla Fiat del professor Valletta esistono tantissime testimonianze biografiche ed altrettante analisi socio-economiche; sono stati studiati a fondo il periodo settembre ’43-aprile’45 con il salvataggio di Mirafiori, la ripartenza, il boom della 500 e della 600 colla motorizzazione del paese, la collaborazione con l’Unione Sovietica, ecc… Ebbene, il ciclo produttivo di questi vent’anni, dall’omologazione del fornitore alla direzione degli stabilimenti (Lingotto e Mirafiori) passando per la scelta degli impianti, era in mano a dirigenti, muniti al massimo di un diploma, in buona parte provenienti dalla Scuola Allievi. Appunto, i Cavalieri. Partendo dai prodotti, l’aspirante fornitore, dopo un formale incontro col Servizio Acquisti, veniva indirizzato al Laboratorio Tecnologico perché, sia le omologazioni, che successivamente, i collaudi erano di competenza del Cavalier Ferraro, capo del Servizio. Italo Ferraro era un omone di un metro e novanta ben oltre il quintale di peso che portava quella stazza con grande disinvoltura e che dimenticavi immediatamente allorché il discorso si faceva tecnico perché venivi sotterrato dalla sua enciclopedica conoscenza del mondo dell’auto e di tutto quanto con esso aveva a che fare. Uomo di grande intelligenza, dote che saltava agli occhi considerando che lui, entrato come semplice operaio, si era circondato di un gruppo di giovani laureati (Noris, Dogliotti, Viale, Bullio, Sgambetterra, Fiermonte, Barbano) tra i quali aveva suddiviso le tante competenze, portandoli ad una elevatissima specializzazione. Quando gli fui presentato dall’Ingegner Pettazzi, appreso che ero alessandrino, da buon casalese borbottò:” un mandrogn.” Nacque con Ferraro una splendida collaborazione, nutrita di stima e di fiducia reciproche, durata fino al suo pensionamento agli inizi degli anni Settanta. A dividerci c’erano solo le sigarette, per il Cavaliere le Muratti era roba da signorine, (fumava Gauloises), e il calcio, granata lui, gobbo io. Per me è stato un gran Maestro. Era con Ferraro che si percorrevano i chilometri delle linee di verniciatura del Lingotto e di Mirafiori per il battesimo di una nuova tinta, per la partenza di un nuovo modello, al variare di un sistema di applicazione, il più delle volte al momento di una grana in produzione. A Mirafiori, una in fila all’altra, si trovavano l’officina 17 e relativo stampaggio delle lamiere, la 18 (fosfatazione e verniciatura) del Cavalier Bruno, la 19 (selleria con uso di adesivi e sigillanti) del Cavalier Chiocchetti; c’era in rari casi, l’incontro con il Cavalier Fiorelli, Direttore dello stabilimento.
Lo stesso avveniva al Lingotto dove le linee erano due: all’ultimo piano l’officina del Cavalier Barale dove si produceva la 1100 bicolore e, due piani sotto, la linea del bianco con i frigoriferi fabbricati su licenza Westinghuose. Al Lingotto si era meno formalisti e capitava di intrattenersi con il direttore cavalier Marchino. Infine c’erano le riunioni per discutere sugli impianti sempre alla presenza del Cavalier Ferraro: una lunga tavolata con giovani ingegneri a destra e a sinistra ma, a capotavola, il Capo Servizi e il suo vice: il Cavalier Lana e il Cavalier Morello. Quegli uomini hanno portato la Fiat tra i grandi dell’auto del mondo.






















L' INCORPORAZIONE (1967-1976)

Al vertice della IVI, nei dieci anni precedenti l’arrivo di Gian Alberto Saporiti, si susseguirono quattro direttori generali completamente diversi uno dall’altro per esperienze di lavoro e caratteristiche personali. Ebbero in comune il non aver affrontato il problema delle due anime societarie e del loro amalgama, oppure il non aver avuto il tempo per farlo o ancora l’averci provato ma privi di quelle conoscenze indispensabili esposte in precedenza. Vediamo queste quattro figure.
Per poco tempo, a fusione avvenuta, la IVI continuò ad essere diretta dall’ingegner Bartolomei Corsi, gran signore fiorentino di illustri natali con elegante appartamento sui Lungarni, ex ufficiale di marina, fatto questo non insolito in un gruppo che aveva avuto come presidente, per quasi mezzo secolo, un ufficiale di cavalleria. Tant’è che, ancora a fine anni Settanta, quando c’era una riunione dell’alta direzione Fiat si parlava di “andar a rapporto”. Bartolomei veniva da un’esperienza alla Weber, altra consociata che, come la IVI, ma come la gran parte delle partecipate, aveva un unico obiettivo: il rispetto dei programmi della Casa madre per quantità fornite, rispondenza ai capitolati, scorte di magazzino. E’ bene ricordare che si fa riferimento ad un decennio nel quale la produzione Fiat ebbe un incremento medio annuo del 25% passando dalle centomila auto fabbricate nel 1960 al superamento del traguardo del milione nel 1970, gli anni d’oro del “production oriented”. Al centro della programmazione stava il budget, che allora, era poco più di un’operazione aritmetica in quanto, intorno alla metà di novembre, le partecipate ricevevano dalle tante sezioni del gruppo (auto - veicoli industriali – trattori - movimento terra – velivoli - ferrovia - componentistica- ecc.) le unità che ognuno prevedeva di costruire nell’anno a venire, per cui, conoscendo di ogni manufatto i consumi del ciclo di verniciatura, si otteneva un quadro più che soddisfacente delle esigenze Fiat nei dodici mesi a venire. Nel corso dell’anno si potevano registrare delle variazioni ma sempre assai contenute; un’eccezione erano la finiture delle auto che risentivano delle richieste dei clienti e delle mode del momento. Due erano i servizi aziendali sollecitati dalla stesura del budget: gli Acquisti, che dovevano immediatamente programmare i fabbisogni e gli ordini di materie prime e gli impianti, per il controllo delle corrispondenti capacità produttive e l’eventuale potenziamento dei macchinari. Ecco spiegata la mancanza di anima mercantile nelle partecipate ed ecco che diventa comprensibile come un direttore come l’ingegner Bartolomei sostanzialmente assorbito dal rispetto di un programma, perdipiù anziano e prossimo alla pensione, non avvertisse un problema spinoso come appunto quello Milano – Quattordio.
Uscito Bartolomei, la direzione della IVI passò al dottor Bono, l’uomo che aveva tutte le caratteristiche per risolvere quel problema. Conosceva il mercato delle vernici per l’esperienza fatta alla Inves, era cresciuto alla scuola Fracchia – Pettazzi, conosceva gli uomini, portava un cognome di peso (suo padre era l’Amministratore Delegato della Fiat) era giovane ed era in gamba ma ….. non ne ebbe il tempo. Fu coinvolto nel terremoto gerarchico che aveva fatto seguito alla scomparsa del professor Valletta e venne chiamato a Torino a prendere possesso di una prestigiosissima carica, quella di direttore del settore Partecipate. Una patata bollente con la quale si sarebbe scottato ma soprattutto l’impossibilità si essere protagonista di una partita che, ben giocata, avrebbe dato luogo al maggior produttore nazionale di vernici ed uno dei più importanti in Europa. Le cose restarono come prima.
Il terzo direttore del decennio fu il geometra Giuseppe Bianchi. Se stessi raccontando la storia della Chiesa, lo avrei detto il classico Papa di transizione. Bianchi si trovò lì per l’improvvisa andata a Torino di Marco Bono e per gestire la situazione in attesa di definire l' identikit del futuro direttore. Ho avuto col geometra Bianchi un bellissimo rapporto godendo della sua considerazione: fu lui a chiamarmi a dirigere lo stabilimento di Milano, fu ancora lui a nominarmi nel 1972, alla Direzione della Divisione Industria, fu sempre lui, non più direttore ma consigliere IVI, a suggerire al Cda, in coppia con l’ ingegner Pettazzi, ma senza successo, il mio nome per la Direzione Generale. Purtroppo Bianchi, pur avendo alle spalle vent’anni di frequentazione del settore ed un passaggio in Max Meyer, non conosceva il mercato delle vernici, essendo un tecnico di impianti di cui era un grande esperto ma, soprattutto, non sapeva nulla della storia quattordiese. Il ragionamento di Bianchi, nell’esaminare la situazione, partiva da un fondamento inoppugnabile. Pur essendo nata un’unica società, restavano in piedi le due preesistenti strutture aziendali con conseguenti doppioni in ogni funzione operativa. Occorreva pervenire ad una semplificazione che avrebbe finalmente portato al coordinamento delle attività esterne e ad indiscussi vantaggi gestionali. Bianchi trovò un alleato nell’ingegner Raimondo Rumor, neo vice-direttore generale, giunto alla IVI dalla Duco. Ma se già Bianchi sapeva poco della storia Inves, Rumor addirittura la ignorava e così nacque l’organigramma della pagina seguente, corretto seppur pletorico nell’impostazione, ma folle nelle scelte. Su quindici dirigenti indicati, quattordici erano di matrice IVI, uno solo (Poggio) era cresciuto a Quattordio. Scomparivano dirigenti e tecnici che fino al giorno prima svolgevano in piena autonomia compiti di grande responsabilità come Cacciabue, Gay, Massobrio, Sclauzero,… Era l’autunno del 1970, il prologo dell’era Rumor. (Vedi organigramma allegato pag. 34)
Raimondo Rumor era figlio di un alto dirigente delle Officine Reggiane, si era laureato in ingegneria, era sposato con tre figli. Con lui ho lavorato a strettissimo contatto per quattro anni ma ho anche trascorso delle piacevolissime serate, in giro per Milano, nelle quali emergevano lati del suo carattere assolutamente imprevedibili se conosciuto solo sotto l’aspetto manageriale. Sullo stile di direzione eravamo agli antipodi. Io credevo alla formazione quotidiana del personale, lui ai corsi preconfezionati argomento per argomento; io puntavo sul rapporto di fiducia cliente-fornitore comprensivo di assistenza post-vendita, lui sulla perfezione del prodotto che, raggiunto “difetto zero”, avrebbe eliminato le relazioni interpersonali; io dividevo la mia giornata tra colloqui, visite, sopraluoghi, mentre lui era fisso in ufficio seduto dietro ad una scrivania sgombra di documenti. Questi nostri differenti comportamenti me li riassunse, lapidariamente, allorché gli comunicai che, non condividendo la scelta che aveva fatto del suo vice, avrei lasciato l’azienda: ”Mi dispiace molto, Poggio, perché nelle vernici, lei è uno dei massimi tattici del mondo ma, a capo di un’azienda, ci deve essere uno stratega. C’era del vero in questa affermazione nel senso che la pratica aveva un peso considerevole sia nella fabbricazione dei vernicianti in quanto le formule, utilizzando anche prodotti naturali, non garantivano l’uniformità e sia nell’applicazione eseguita in modi svariatissimi e in tanti casi, ancora manuale. Solo una lunga esperienza consentiva la padronanza delle continue emergenze. Per Rumor io ero un tattico. Rumor, da buon ingegnere, pretendeva di superare questa procedura partendo da zero; l'errore di gettare via colla bacinella anche il bambino. Si prefisse la creazione di un'azienda modello dove, partendo da un piano generale basato sull' MBO (Management by objectives), ogni funzione incrociasse i rispettivi target, i problemi venissero dibattuti in gruppi all'uopo costituiti, i risultati fossero valutati da un rigoroso controllo gestionale. Ritenendo inoltre che la dirigenza societaria non fosse all'altezza della nuova impostazione, Rumor si avvalse di due leve: l'inserimento di nuovi dirigenti, professionalmente capaci ma digiuni del settore, e la supervisione della Cegos come consulente esterno. Per inciso, tra gli altri, arrivò anch'egli dalla Duco, dove dirigeva la ricerca, un giovane chimico industriale destinato ad una prestigiosa quanto diversa strada, un aretino duro come il marmo: Enrico Bondi, ora in Parmalat. La Cegos inviò quelli che definimmo “I quattro moschettieri” (Falcone, Ottolenghi, Vedrines, Winternitz) che, per oltre un anno divisero il loro impegno tra colloqui individuali e meetings vari. Nacque una struttura a matrice, product manager e market manager, sorsero innumerevoli comitati con diverse finalità, fummo sepolti dai tabulati.
Non era certo questo il modo di gestire appreso vent'anni prima ma resistevo perché in quell'azienda ero nato, la amavo, sognavo di esserne un giorno il direttore generale. Mi sembrava impossibile lasciarla. Dovetti farlo quando, un paio di anni dopo a giugno 1974, Rumor mi comunicò a quattrocchi che aveva deciso di portare in IVI l'ingegner Falcone della Cegos con il ruolo di vicedirettore generale. Aldilà delle mie dimissioni, quella mossa provocò, in pochissimo tempo, un disorientamento allargato che generò carenze qualitative di produzione, lamentele dei clienti che erano in gran parte le diverse sezioni o partecipate di Fiat; aggiungendosi a tale confusione, l'effetto negativo della prima crisi petrolifera, finì per soffrirne anche il bilancio societario. A questo punto si mosse Torino, dove per la verità Rumor non aveva mai goduto di grande simpatia, che mandò in IVI uno dei suoi giovani e quotati dirigenti: Gian Alberto Saporiti.
Raramente una scelta fu così azzeccata. Era quello l'uomo giusto, dotato dei requisiti mancanti ai suoi predecessori e basilari per fondere IVI e Inves.
Saporiti, avendo anni prima sostituito il cavalier Ferraro a capo del laboratorio tecnologico, era un esperto di vernici ma era anche preparato sul caso specifico, godeva della stima dei vertici Fiat dopo la positiva esperienza di direzione in un altra consociata: la Comind; possedeva una non comune capacità di comando. Saporiti ripristinò le antiche abitudini, riscoprì valori accantonati, rivide l'organigramma dando spazio al merito e i risultati non tardarono a farsi sentire. L'importanza di amalgamare le due culture e il peso delle sinergie che potevano derivarne, Saporiti la avvertì al punto di promuovere, in collaborazione con Max Meyer, il Progetto 99 ovvero la fusione delle due principali ditte del settore in Italia. Il Progetto 99 che impegnò, in lavori preparatori e in molti incontri, al dirigenza delle due aziende, partorì un piano valido e foriero di molti sviluppi,.....rallentò, per poi scomparire di scena, allorché la trattativa vide in azione Cesare Romiti e Leopoldo Varasi che non raggiunsero mai un minimo di intesa per la futura gestione del business. Un peccato, perché non sono l'unico a pensare che l'operazione avrebbe cambiato il destino della chimica fine nel Paese. Cambiò, invece, quello della IVI che, godendo finalmente i frutti di una fusione ben guidata, riacquistò slancio e valore e, quando svanirono i fumi della sbronza da verticalizzazione, fu ceduta dalla Fiat all'americana PPG.