domenica 14 dicembre 2008

Carlo Poggio - aneddotica

Negli anni Settanta, la IVI era una grande azienda chimica con tre stabilimenti a Milano, Quattordio (AL), Caivano (CE) e circa 1600 dipendenti.
Un discreto numero di costoro, dati i molti collegamenti nazionali e internazionali come le tante opportunità che si presentavano, era sovente in viaggio per lavoro e non era raro il caso che, da questi viaggi, vi fosse che tornava con un’avventura da raccontare.

Ho raccolto, fra tutte, quelle che, per la loro singolarità, avevano riscosso grande successo e le ho raccontate in prima persona, anche se non tutte accadute a me, perché mi nascevano dei dubbi sui protagonisti dell’epoca.

Sono storie che non hanno nesso con lo specifico argomento della pubblicazione ma sono storie capitate a persone dell’azienda nel periodo analizzato e soprattutto sono storie curiose e divertenti.
In fin dei conti, l’intenzione era di chiudere con un sorriso.

PARIGI


Intorno alla metà degli anni Sessanta, alcune case automobilistiche francesi avevano adottato un tipo di sigillante particolarmente interessante per la sue proprietà protettive, motivo per cui, assunte le dovute informazioni, risalimmo al fabbricante di quel prodotto, arrivando quindi a concludere la concessione di una licenza esclusiva per l’Italia.

Ci venne proposto di firmare l’accordo a Parigi per cui, in un bel giorno di primavera, partiì da Linate con il mio vicedirettore geometra Bianchi che era munito degli appositi poteri.
Il nostro interlocutore aveva fatto le cose in grande.

Venne a prelevarci all’aeroporto con una Mercedes presidenziale, completa di autista in livrea, ci portò a Lille a visitare lo stabilimento e quindi a pranzo.

Nel pomeriggio rientrammo a Parigi dove erano sede centrale e centro ricerche e lì avvenne la firma del contratto.
Alle sette di sera ci scaricò in rue de la Paix davanti al Continental (poi Intercontinental), dove eravamo ospiti, informandoci che sarebbe passato a prenderci intorno alle nove per passare insieme la serata al Lido.

Questa comunicazione agitò il mio capo, che appena entrato in albergo, mi disse che dovevamo affrettarci se volevamo fare un doccia e mangiare prima dello spettacolo. Obiettai che non capivo perché volesse mangiare in quanto avremmo cenato al Lido ma non ci fu verso. Al Lido non si mangiava.
Fui invitato a trovarmi mezz’ora dopo per andare da Ciro in Boulevard des Italiens dove avremmo cenato.
Lo accompagnai, ma a fronte della sua ordinazione (affettati, pizza, crème caramel, mela, caffè, amaro) presi una mozzarella e un frutto, ben saldo nella mie convinzioni; rientrammo all’hotel e poco dopo giunse il nostro anfitrione accompagnato dalla consorte.

Una veloce presentazione, un accenno di baciamano e pochi minuti dopo eravamo davanti al Lido con auto prelevata da un addetto, maitre in attesa, tavolo in prima fila a livello palcoscenico ma, soprattutto, tavolo imbandito con piatti, bicchieri, posate che non lasciavano dubbio sul seguito della serata.
Due cose attirarono la mia attenzione: il colpo d’occhio della sala con il palcoscenico contornato da una corolla di tavoli elegantissimi nei loro addobbi e il pallore del viso del mio vicedirettore, cosa che mi preoccupava perché Bianchi, benché cinquantenne, aveva già avuto due infarti.

Serata indimenticabile.
Alternati ai tanti numeri dello show, ci furono serviti, hors d’oeuvre, potage, due entrées di carne e di pesce e, meraviglia delle meraviglie, posizionati su tre piani dell’apposito carrello, almeno trenta formaggi vanto della cucina d’Oltralpe.
Il tutto opportunamente accompagnato dal vino che, di volta in volta, il sommelier consigliava. Dessert, caffè, un cognac d’annata, conclusero il banchetto.
Il capo resse l’urto.
Declinò, all’uscita, il passaggio offertoci, adducendo l’abitudine di una passeggiata dopo cena, per cui salutammo calorosamente in nostri ospiti, avviandoci quindi a percorrere tutti gli Champs-Elysees, dall’Arco alla Concorde, piacevolmente discorrendo di quanto detto, fatto, visto, durante quella lunga giornata.
Entrati in albergo, prendemmo l’ascensore e fu solo davanti alla porta della sua camera che Bianchi sorridendo mi chiese:

- Dottor Poggio, lei era già stato al Lido?

- No, signore, ma ho uno zio che ha lavorato qui alla Banca Commerciale e così….

- Ogni giorno si impara qualcosa; per fortuna mi porto sempre l’Alkasetzer. Buonanotte, Dottore.

- Buonanotte, signore.




RIO DE JANEIRO



A Rio de Janeiro, davanti al Maracana, il più grande stadio del mondo, c’è la statua di Bellini, il capitano di quel Brasile che vinse in Svezia per la prima volta, nel 1958, i campionati mondiali di calcio.
Io riusciì ad entrare nello stadio, malgrado il campionato fosse sospeso per la pausa estiva, la domenica mattina mentre andavo all’aeroporto per rientrare in Italia.
Il portiere dell’hotel conosceva un tassista lontano parente di un addetto del campo che, per qualche cruzeiro, mi fece addirittura passeggiare sul prato.

Fu una visita emozionante perché, in un silenzio da incanto, alla grandiosità dell’arena si univano i ricordi legati ai nomi dei tanti campioni che, su quell’erba, avevano giocato. E che fosse un momento magico me lo confermò la risposta del mio accompagnatore allorché gli chiesi:

- Ma quando nasce in Brasile un altro Pelé?

- Sorrise, mi mise una mano sulla spalla, guardandomi con compassionevole benevolenza, mi sussurrò in un orecchio:

- Senor, Pelé è come Gesù Cristo. Ne nasce uno ogni duemila anni.



BARCELLONA



Nella prima metà degli anni Sessanta, due grandi aziende italiane, in forte crescita, allargarono i loro interessi alla Spagna: la Fiat acquistò la Seat di Barcellona e la Zanussi costituì l’Ibelsa, una joint-venture nei pressi di Madrid.

Essendo fornitori di entrambe ma impossibilitati ad esportare per i dazi che arrivavano anche al 30%, fummo sollecitati a trovare un’intesa con un produttore locale che desse sufficienti garanzie di affidabilità.

La nostra attenzione si concentrò su un’azienda di Barcellona, la Ivanov , di media dimensione ma assai vivace ed in forte crescita tanto da aver progettato un nuovo stabilimento nell’area industriale prossima all’aeroporto.

Esisteva un reciproco interesse all’accordo per cui, in tempi brevi, venne la conclusione.
Entrammo nel capitale di minoranza ma significativamente, ci fu data una presenza in CdA e la partecipazione di un nostro dirigente alla gestione.
Azionista di maggioranza era rimasto l’ex proprietario, Victor Ivanov Bauer, che con i tanti rapporti avuti, era diventato un buon amico.

Fu così che a trattativa perfezionata, mi invitò a trascorrere un weekend nella sua casetta al mare.
Alla faccia della casetta.

Mi trovai in un posto da favola, a una trentina di chilometri da Barcellona, dove, al centro di una baia immersa nel verde che mi ricordava la Fetovaia elbana degli anni Cinquanta, erano stati costruiti la villa, l’imbarcadero (munito di veliero e fuoribordo), due campi da tennis, un golf con, si fa per dire, solo nove buche.
Il seguito fu all’altezza delle promesse per cui fu uno splendido fine settimana.

Il lunedì mattina intorno alle nove, partimmo in auto per la città diretti in fabbrica mentre, nel tardo pomeriggio, io avrei preso l’aereo per tornare in Italia.

Fatti pochi chilometri, attraversando uno dei tanti paesini della riviera, ci apparve sul lato destro della strada un signore che chiedeva un passaggio ed è corretto dire “signore” perché nulla aveva dell’autostoppista in quanto alto, magro, ben vestito, borsello al fianco; in sintesi distinto.

Victor mi guardò e tacitamente, lo imbarcammo; il gentleman salì, si presentò, si profuse in mille scuse ed altrettanti ringraziamenti, spiegandoci infine, il disastro del suo inizio di giornata.

Possedevano tre auto in famiglia ma due erano partite molto presto, una con moglie indaffarata e una con figlio universitario; la terza auto, la sua, non ne aveva voluto sapere di mettersi in moto. Nel villaggio non vi erano meccanici, trenino e corriera per Barcellona fermavano lì una sola volta al giorno e, naturalmente, in prima mattina. Perdipiù il lunedì nel suo lavoro, non disse quale, era il più proficuo della settimana.
Ascoltando queste geremiadi, non solo non ci eravamo accorti di essere entrati nell’abitato di un altro piccolo centro ma lo avevamo fatto a velocità superiore al consentito.
Lo capimmo dal fischio di un vigile.

Accostammo al marciapiede, la guardia ci raggiunse, controllò libretto e patente poi, senza dire una parola, estrasse blocco e penna con intenzioni chiarissime. E qui iniziò uno show.

Perché Victor e autostoppista schizzarono contemporaneamente fuori dall’auto per impedire il verbale e conseguente multa ma presto il nostro passeggero prese il sopravvento ed il rapporto con il carabiniere divenne un suo fatto personale.

Raccontando della cortesia usatagli, cortesia che non meritava una tale conclusione, abbinava, ad una esemplare eloquenza, una efficacissima mimica fatta di espressioni del viso addolorate e movimento lievissimo delle mani a guisa di farfalla.

Era letteralmente uno spettacolo ma non commosse il pubblico, ovvero il vigile, che compilò verbale e ammenda.

Com’è facile intuire, il resto del viaggio fu una lunga critica alle forze dell’ordine che trascuravano i criminali per perseguire la brava gente che va a lavorare eccetera, eccetera….

Alle porte della città, Victor chiese al nostro compagno di viaggio dove gli era comodo scendere dato che noi andavamo dalla parte opposta di Barcellona e quindi l’avremmo attraversata tutta.

La risposta fu entusiasta:

- Che servizio! E’ proprio il mio giorno fortunato, lavoro alle Ramblas.

Ci fermammo sotto la statua di Colombo, scendemmo tutti e tre ed il signore espresse il suo rammarico per l’episodio della contravvenzione, aggiungendo, però che vi aveva posto rimedio.

- Yo soj un ladron – disse mentre ficcava in mano a Victor il libretto del malcapitato vigile catalano, artefice secondo lui di una grave ingiustizia, al quale lo aveva sottratto con l’abilità di un grande professionista.

- Gracias, muchas gracias – aggiunse e sparì nella strada particolarmente affollata del lunedì.

Venti minuti dopo, il corpo del reato finiva nel fuoco purificatore della caldaia centrale dello stabilimento Ivanov.


PORDENONE


L’omologazione degli smalti Inves alla Rex fu un’operazione lunga e complessa perché l’unico fornitore del Gruppo era una grande azienda inglese, la ICI di Slough, altamente specializzata, ma anche per la diffidenza nutrita verso i prodotti nazionali a seguito di un infelice esperimento che aveva provocato l’ingiallimento di migliaia di elettrodomestici.

Ne derivò un’interminabile trafila. Approvati i primi campioni di laboratorio, sottoposti al vaglio di un capitolato assai rigoroso in particolare per i test di resistenza ad agenti di varia natura, vi furono le prove di spruzzatura che, al tempo, era ancora manuale; infine arrivò l’ordinativo per una fornitura sperimentale.

Questo iter aveva voluto dire innumerevoli viaggi a Pordenone, viaggi interminabili, non esistendo alcuna autostrada utile, per il ché si percorrevano strade statali o provinciali addirittura attraversando città come Piacenza e Cremona, Mantova e Vicenza.

Trascorrevo praticamente le giornate nel reparto verniciatura il cui capo era il Tullio, un simpatico ragazzone friulano, diplomato in chimica, con il quale nacque una bellissima amicizia nell’assoluto rispetto delle reciproche responsabilità.
Fu uscendo a cena, nelle invitanti trattorie del posto, che scoprimmo la comune passione per il vino.

Tullio mi fece conoscere ed apprezzare i tanti vini friulani: Merlot e Marzemino, Tocai e Pinot, Cabernet e Scioppettino, Sauvignon e Ribolla, Verduzzo e Refosco, fino al Ramandolo e al leggendario Picolit. Contraccambiavo portando Grignolino, Freisa, Barbera e Dolcetto.

Fu questa cultura enologica a convincere Tullio a parlarmi del nonno.

Suo nonno abitava a San Donà del Piave, luogo d’origine della famiglia, in una casetta con giardino che aveva, sul retro, una vigna di uva rosse che il nonno curava personalmente.

La curiosità riguardante il vigneto era la sua estensione, calcolata per una resa media annua di 1200/1300 bottiglie corrispondenti al consumo del proprietario (un paio di bottiglie al giorno) e ad una scorta sufficiente per le serate con gli amici, le feste, gli omaggi.
Entrai, grazie all’amicizia con il nipote, tra i beneficiati.

Alcuni anni dopo, giunsi a Pordenone, per la solita visita periodica, in una di quelle giornate settembrine in cui si stagliano nitidissime le montagne e nel contempo da sud giunge l’odore del mare. Andai alla verniciatura dove Tullio mi accolse con una faccia tristissima: “Quest’anno, niente vino del nonno” e continuò: “Ieri, una grandinata….. non è rimasto nulla, solamente i tronchi delle viti completamente spogli”.

Istintiva fu la domanda: “Il nonno?” Tullio sorrise, poi raccontò.

Impietrito, il buonuomo aveva assistito dalla finestra della cucina alla distruzione del suo vigneto. Al termine della tempesta, era uscito a girovagare tra i filari raccogliendo ogni tanto da terra, rigirandoli tra le dita,una foglia o un grappolo martoriati dai chicchi di grandine.
Sempre silenzioso, rientrato in casa, era andato in camera da letto e lì aveva staccato il Crocifisso, appeso sulla testiera. Si erano guardati negli occhi, poi il nonno aveva legato Nostro Signore ad un lungo pezzo di spago, era tornato nella vigna e lo strascicava per terra, avanti e indietro, perché vedesse il disastro.

A voce bassa lo rimbrottava:” Varda, varda, varda cosa ti ga fato...”.


ROMA



Una delle specializzazioni dell’azienda era la produzione di vernici per usi militari, per tutte le tre Armi.

Dopo lunghe trafile tecniche e burocratiche, avevamo ottenuto le necessarie omologazioni: dal Centro Mariperman di La Spezia per le unità della Marina Militare, da Weisbaden per gli F 86 e i G 91 in dotazione all’Aeronautica, dall’Arsenale di Torino per i carri armati costruiti dall’Otomelara.

Tra i nostri clienti figuravano tutti gli Arsenali navali da Taranto a La Spezia , a Messina, a Augusta, a Napoli, Venezia, Maddalena; erano presenti i più bei nomi dell’industria aeronautica come Aeritalia, Macchi, Piaggio, Siai Marchetti; annoveravamo tutti i fornitori dell’Esercito che utilizzavano vernici mimetiche o riflettenti.
Fu per questa specializzazione che mi venne richiesto telefonicamente un incontro a Roma al Forte Boccea.

Non mi furono date molte delucidazioni sull’argomento da discutere ma semplicemente il luogo, la data e l’ora del rendez-vous oltre al nome e al grado dell’ufficiale da contattare.
Avrei solo dovuto fare quel nome all’ingresso del Forte per ottenere il pass.
Ero all’oscuro del legame Forte Boccea - Servizi segreti.

Una bella mattina di settembre del 1973 presi un aereo da Milano e un’ora dopo ero in fila a Fiumicino per prendere un taxi.

Montato in macchina, dissi solo " Al Forte Boccea " e ci avviammo.

Era appena cominciato il campionato di calcio e il tassista, dopo essersi informato se venivo da Milano e avuta risposta positiva, mi chiese se tifavo Inter o Milan; replicai che ero piemontese e che tifavo Juventus.

Ne nacque una approfondita analisi del calcio italiano con qualche sospetto suo sul perché gli scudetti li vincessero sempre le squadre del Nord e pochi le due romane.

Ad un tratto il conducente si interruppe e girandosi a guardarmi, mi annunciò che stavamo nel quartiere del Forte e chiese in quale via in particolare fossi diretto. Io replicai che andavo proprio al Forte e, a questo punto lui rallentò fino quasi a fermarsi e poi sempre girandosi, sussurrò:
- Dottò, al Forte militare?

- Si, al Forte –.

Non capivo quell’aria di mistero.

Per una decina di minuti viaggiammo in silenzio assoluto fermandoci infine ai cancelli dell’edificio in cui ero atteso.
Sceso dal taxi, dissi al piantone di guardia il nome che mi era stato segnalato e consegnai un documento di identità.

Passò un tempo abbastanza lungo e, finalmente, il piantone ritornò per spiegarmi la strada all’interno, aggiungendo, però, che, il taxi non poteva entrare per motivi di sicurezza. Mi sarebbe stato chiamato un secondo taxi al termine del colloquio.

Tornai dall’autista e dettogli che non c’era permesso di accesso per auto pubbliche, chiesi che mi desse la ricevuta della corsa.

Trasecolai alla risposta.

- Niente, dottò, è tutto gratis -.

- Scusi, perché niente?-

- Niente , pecchè da na vita aspettavo de portà n’aggente segreto. Me ripago stasera quando lo racconto a mi moje -.

Poi, strizzando l’occhio, mi tranquillizzò: - Dottò, nun ce siamo mai visti -.


HONOLULU


Nel 1973, la Direzione estero della Fiat organizzò un viaggio di grande interesse che prevedeva una settimana negli usa e una in Giappone con visite a stabilimenti automobilistici e fabbriche di vernici.

A quel viaggio partecipai, in rappresentanza della IVI, in compagnia di due alti dirigenti del gruppo il che significava grandi alberghi e business class.
Era un viaggio che si sarebbe potuto anche definire un piccolo giro del mondo perché il percorso prevedeva sosta a New York - Saint Luois - Los Angeles - San Francisco - Honolulu - Tokyo - Osaka - Anchorage - Copenaghen e rientro a Milano.

Chiedemmo di rivedere un solo punto del programma presentatoci ovvero non la sosta tecnica alle Hawaii, ma una fermata così da trattenerci per un giorno a Honolulu e ammirarne le tanto decantate bellezze.

D'altronde, quando mai saremmo ripassati da quel paradiso?

Fu così che alla fine della prima settimana del viaggio, concluso il tour americano, ci imbarcammo nel tardo pomeriggio su un Jumbo della Pan Am in partenza da San Francisco per le Hawaii.

Come detto, viaggiavamo in business che, nei Boeing 747 di allora, era una classe da favola in quanto i sedili, già di per sé comodissimi, si trovavano solo nella parte inferiore del velivolo mentre nella gobba vi era un piccolo bar, riservato ai clienti della business, al quale si accedeva da una scaletta a chiocciola.

Il bar aveva un bancone sulla parete di fondo di fronte al quale stavano quattro o cinque tavolini circolari piuttosto alti, ognuno contornato da quattro sgabelli.

Fu lì che, dopo un paio di ore di volo, una hostess ci invitò a recarci per consumare la cena.

Ci si era appena seduti, quando dalla scaletta, spuntò un signore molto alto, quasi imponente, capelli grigi, a primo acchito intorno ai sessanta, il quale, data un’occhiata in giro, visti i sedili tutti occupati, si avvicinò al nostro tavolino. Chiese gentilmente se poteva sedersi, il che fece appena ottenuto il nostro scontato consenso.

Poco dopo, avendoci ascoltato chiacchierare nella nostra lingua, domandò in inglese se fossimo italiani, se parlavamo la sua, se avevamo piacere di conversare.
Come prima cosa, ci dichiarò il suo amore per il nostro Paese che conosceva molto bene, si interessò ai motivi del nostro viaggio, si dimostrò bene informato sull’universo del gruppo Fiat allorché apprese che ne facevamo parte.
Quando a nostra volta passammo a chiedergli quale fosse la sua attività, ci guardo sorridendo e disse che era facile capirla perché era racchiusa nel suo cognome.

Sul momento quella affermazione ci sembrò una spacconata ma, un attimo dopo, perché ul signore, sempre sorridendo e quasi sussurrando, disse:

" My name is Colt ! "

Colt! Non era un nome, era una leggenda, era la storia della conquista del West, da Toro Seduto al generale Custer, da John Ford e John Wayne, la storia di quella 45 a tamburo inventata, come raccontò poi, dal suo bisnonno Samuele alla metà dell’Ottocento.
Un fabbro, Samuele, ma un fabbro geniale.

Da quel momento il tempo trascorse rapidamente, fu quasi solo Mr. Colt a parlare in risposta alle tante domande che noi gli ponevamo; si fece tardi senza che ce ne accorgessimo e quindi riprendemmo la discesa verso i nostri posti.

Nel lasciarci, Mr. Colt si disse molto dispiaciuto.

Avremmo potuto pranzare insieme l’indomani ma purtroppo aveva dovuto modificare i suoi programmi a seguito di una comunicazione ricevuta in aereo; gli toccava così proseguire con lo stesso volo per Tokyo e di là in Medio Oriente per un problema assai urgente.

Era il 6 ottobre 1973. Quel giorno Siria ed Egitto avevano attaccato Israele, era scoppiata la guerra che poi fu detta del Kippur.


Quattordio, Novembre 2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

Già, io avevo 3 anni. Sicuramente grazie anche a quei fatti, il carburante in quei periodi si era arrivati a pagarlo molto più di quanto lo paghiamo adesso. Tanto per citare uno degli effetti, senza ovviamente tenere conto di tutto il resto, resto che paghiamo a debito.