sabato 31 gennaio 2009

d'infanzia e d'infinito (bozza)

questo passeggiare nei luoghi dell'infanzia può essere una gran noia per chi si trova fuori dalla pagina scritta e, per tornare al presente, il confronto è tuttavia inevitabile non tanto per il personalissimo gusto della rimembranza quanto per cogliere i nessi causali che allora mi sfuggivano, l'anello di congiunzione fra cosmo e microcosmo che, quando ti viene in mente di controllare il passato, ti avvicini a interpretare.

Ogni estate papà stava così poco con noi.. e la cosa non mi pareva affatto giusta.
Dopo aver esasperato Madre con le odiose "lotte sindacali" gli orari erano però migliorati.

- me ne andavo la mattina al buio mentre dormivi e tornavo la sera mentre.. dormivi - questo mi diceva, sovrappensiero, se ricordava la mia prima infanzia.
E Madre ricordava le stesse domande...
" papà quando viene? "
Ogni sera temevo non sarebbe tornato, caduto in mare, schiacciato o ammazzato.
In un certo senso lui "non tornava" davvero poichè mi addormentavo senza vederlo arrivare.

A volte arrivava all'ora di cena e, mentre mangiava, raccontava le storie mirabolanti.

Le rappresentazioni si tenevano ai moli, alle banchine, sulle navi e vicino al mare.
Colonna sonora era spesso l'ululato del vento di tramontana, il Burian...
In genovese buriana sta a significare tempesta.

E se papà era di turno a Porta Siberia allora usciva di casa con l'eskimo e il maglione imbottito di giornali.
Io ero spesso preoccupata per lui.
Laggiù, in quel posto carico di misteri e magie ognuno aveva un soprannome e papà, chissà perchè, era il poeta.

venerdì 30 gennaio 2009

Pasquale, capostazione referenziato

alla piccola stazione di Masio l'uomo con la paletta parlava con papà mentre io rubavo le more.

- io ti conosco.. cosa ci fai qui? - aveva detto papà.
- accipicchia ma lei.. -
- tu lavoravi in porto.. vero? - gli aveva detto papà evidentemente soddisfatto.
- già... a Genova, come no! - e il ferroviere gli aveva stretto la mano.
- non capisco.. come sei arrivato fin qui? - papà aveva dato appena uno sguardo al berretto rosso.
- ho vinto un concorso, ho chiesto di restare a Napoli ma il posto era qui -
- e bravo Pasquale, dove hai trovato casa? -
- vede, la strada laggiù finisce, prima del paese ho trovato a buon prezzo... -


Aveva ragione papà.
Durante l'inverno la nonna aveva affittato un pezzo di cascina al nuovo capostazione referenziato Pasquale.
Nella confusione del resoconto collettivo annuale dei nuclei familiari papà aveva ottenuto qualche minuto di attenzione:

L'inquilino Pasquale, capostazione napoletano che lui aveva riconosciuto, erano effettivamente la stessa persona.
Un momento di ammirazione per questa strana caratteristica di essere fisionomista e un po' di stupore per la coincidenza durarono poco, fummo subito inghiottiti dalle ciarle dell'articolata, allora enorme famiglia.
Io, come lui, ero affascinata dagli incontri, dalle coincidenze.. avevo anch'io la netta percezione di importanti significati di cui nè lui nè io trovavamo il senso perciò rimanevamo con il nostro stupore e un complice sguardo interrogativo.

(Prima che arrivasse Pasquale da Napoli avevamo affittato al giardiniere veneto dei Poggio. Che gran da fare nel loro giardino: siepi da tosare, cipressi da potare, erbacce da estirpare e alcuni anni dopo, magnifiche sortite su quell' elettrizzante Ape ribaltabile. Emozioni di rara potenza per tre bambine che sapevano di talco ma che giocavano a piedi nudi. Dell'estasi di quei momenti dirò poi.)

Dunque l'arrivare finalmente alla cascina dopo la via della stazione mi ricorda il profumo del fieno, quello dell'erba tagliata di fresco, della legna bruciata e del letame dei vicini.

I primi abbracci avvenivano in cortile, erano brevi, pieni di uno strano pudore. Anche baciarsi era un rapido sfiorar di labbra pieno di pudore. Non si dovevano prolungare le smancerie però si stava a lungo a parlare spesso fino al crepuscolo, ora che amavo in modo particolare.
Il sole dava ancora luce ma le foglie tremavano alla brezza, le galline stavano brave, le cicale sparivano e finalmente dopo un interminabile anno scolastico potevo sentire il cantico dei grilli. Allora i pesticidi e i fumi delle fabbriche non avevano ancora sterminato i miei insetti preferiti: grilli, cicale e lucciole.

martedì 27 gennaio 2009

l'ombelico Genova / Parigi

Allora non sapevamo che la piccola stazione si sarebbe lentamente estinta
in nome del progresso, della modernità e dell'autostrada.

Mi volgo alle spalle e mi lascio dietro quel casotto nascosto da altissimi rovi,
il ripido sentiero di polvere gialla, il frinire di una straordinaria comunità
di cicale e l'odore delle rotaie roventi.
Sempre quello, l'odore dell'inferno.

(Mi par di capire che l'incubo allora ricorrente fosse di stare in treno, in galleria presso le acciaierie di Cornigliano. Nel sogno il treno si fermava proprio là, in quello che doveva essere l'inferno. Lunghi treni merci, fischi nel buio e rotaie, brutte rotaie. Strutture metafisiche immense e paurose.
Il treno si fermava nell'acciaieria... in una lunga galleria dalla quale dovevo uscire a piedi, da sola, cercando con lo sguardo la lunetta di luce.
Ricorreva anche l'incubo della discesa a rotta di collo tra Liguria e Piemonte,
i freni stridevano, mordevano i binari e c'era quell'odore di ferro caldo, sulfureo e possibile portatore di morte mentre si spegneva la luce.)

Come non comprendere allora la visione paradisiaca della luce del sole dopo tante gallerie? dei campi a perdita d'occhio, dei filari di pioppi ordinati e gentili?
Quei lontani maggiordomi dalle foglie baluginanti parevano salutare la "Cinghei".
Quell'uomo un po' matto così mi chiamava perché era stato a Milano
( veramente era stato dappertutto ) e in quel dialetto qualcosa come cinque scudi, erano appunto il "cinghei" di papà.
In seguito smise di chiamarmi così prima di insegnarmi ad andare in bicicletta, a cinque anni, quando prese a chiamarmi "a figgeoa" secondo la più classica tradizione genovese: la figliola. Che si poteva declinare anche in "figetta" oppure nel melenso diminutivo "figina".
L'arrivo alla stazione di Masio (il puntino tra Genova e Parigi) in cui si alzava il vento solo al transito del "rapido" e all'ossessivo tintinnio della campanella, era un momento a lungo atteso, era talmente desiderato da apparire sogno.
La stazioncina col posteggio per le biciclette è forse l'ombelico della mia infanzia.
Autentico evento dunque partire dal mare profumato e luccicante, spazzato dalla tramontana delle spiagge genovesi, per giungere alle zolle erbose, alla felicità infinita delle corse nei campi assolati e a molte cose straordinarie che non avrei dovuto fare.

venerdì 16 gennaio 2009

la mia stagione quattordiese... (bozza)

a proposito della scuola quattordiese..

la mia prospettiva è più complessa e conflittuale.
Non può essere quadrata e neppure scientifica.
Ha a che vedere con altre dimensioni: emozioni, curiosità e contemplazione.

Mentre Carlo Poggio traeva le prime soddisfazioni di neo laureato in chimica dell'industria io, in arte "timida", capitavo da quelle parti per motivi completamente diversi.
La nonna, lo zio dispettoso, l'altalena, le galline, il mio triciclo... e ancora mille altre importantissime cose.

A volte, se penso alle relazioni umane, sono sicura che il caso non esista.
Anzi, come se un broccato ricco di colori provvedesse lentamente alla propria tessitura , altrettanto lentamente la trama e l'ordito spazio temporali
aiutano a seguire il proprio karma (destino, azione compiuta..)

La percezione del tempo era allora assai diversa.
Lo era al punto che percepivo me stessa come una sorta di eternità vagante spaccata fra terra e mare.
Il mare era Genova, la mia città, di cui ero orgogliosa.
La terra era il piccolo paese dei nonni materni dove ogni estate ritrovavo amiche, cugini, vecchie zie ..
Le piccole amiche alzavano i loro nasini impertinenti:
- da dove vieni ? -
- Genova - dicevo io, con l'aria di chi nasconde il mare in valigia.
Allora la Superba contava quasi un milione di abitanti mentre il paesello ne contava sì e no duemila.
Ogni anno, appena arrivata, avevo già consumato una lunga, indimenticabile stagione balneare.

Le mie stagioni dunque erano solo tre:
scuola, mare e campagna.
La prima, dove sfoggiavo il massimo della serietà era il luogo grigio.
invece il mare, la spiaggia rappresentavano il colore chiaro, un po' giallino, di inizio estate.
A Giugno si incominciava ad andare ai bagni com'era consuetudine dire.
Alla fine di luglio poi si facevano le valige e si atterrava su Marte , tale era lo scarto, la cesura fra i due mondi.
Appena scesa dal treno l'aria si faceva "spessa", afosa e la luce abbagliante mi costringeva a stringere le palpebre.
Non ero felice, io stessa ero la felicità .

La stazione aveva due soli binari, una campanella nascosta e assordante e un casotto con buco per capostazione con berretto rosso: il nostro futuro "Pasquale".

Papà era agile e scattante. Tirava giù una borsa.. poi l'altra, depositava me a terra mentre da rotaie e sassi arrugginiti montava sù un odore sulfureo che sapeva d'inferno (e chissà come si arriva da un binario all'inferno io proprio non me lo ricordo).

Papà si era fermato a parlare col capostazione mentre la mamma alzava gli occhi al cielo (certe cose non le sopportava).
Chi era poi quell'uomo? C'era un lungo pezzo di strada e le borse diventavano pesanti..
A me non importava molto, intanto mangiavo le more. Esse pendevano da una foresta di rovi che non avrei mai più visto in vita mia, evocavano la banalità del peccato e il giardino dell'Eden.
D'altronde stavo per essere formata come buona bambina cattolica, scarpe bianche e sguardo a terra.

Mio padre ci aveva finalmente raggiunte sorridendo.
- lo sapete chi è il capostazione? - disse come un alchimista , come lo sciamano degli incontri, (questo era il mio leggero ma ingombrante padre).
- è un meridionale? -
- sì, e.. pensa che lo conosco! - disse animandosi come sempre, lui che ovunque incontrava qualcuno.
- anche qui? non c'è anima viva!.. possibile che devi sempre conoscere qualcuno? - sottolineò Madre.
Passò subito un'auto sollevando la polvere bianca che l'avrebbe ancor più indispettita. Naturalmente papà giurava e spergiurava come al solito.
Ma come poteva lui, portuale genovese, conoscere il capostazione napoletano di Masio? un puntino geografico, due binari che il rapido delle ventitre piallava in pochi secondi in direzione Torino- Mòdane.. Parigi. A lui piaceva scommettere e la spuntò con Madre che disse sì, va bene ci sto...



segue

giovedì 1 gennaio 2009

Moses Herzog

Herzog è un libro matrioska . Il primo "involucro narrativo" contiene il romanzo, dettato dalla processione di flash back sulla vita di un personaggio incredibilmente attuale.
All'interno della vivace storia dell'uomo "fragile", un po' scomposto nel suo narrarsi, ora in prima ora in terza persona (pensato per tenere desta l'attenzione del lettore o spericolato guizzo stilistico?) viene intercettata una immensa quantità di riflessioni generali: psicologiche, filosofiche, sociologiche, politiche.. spesso introdotte con abili trovate narrative quali le lettere ai morti o le invettive a importanti personaggi viventi.
Il disorientato Herzog da così voce al professor Herzog che introduce pagine alte, dotte, apparentemente incongrue, di lettura più lenta - questo sì - ma assai efficaci nell'impreziosire il magmatico libro.
Un libro pieno di amor di patata . Un quasi diario costantemente sull'orlo del saggio o dell'invettiva.
I livelli di lettura sono tanto diversi fra loro eppure ben omogeneizzati e godibili per la magistrale vena d'ironia che permea tutta l'opera.
Quasi quasi viene il dubbio che la vera protagonista sia essa stessa o comunque un senso di bislacco destino... inafferrabile e assolutamente cinico.